Oggi sappiamo (e studiamo dai libri di storia) che la Cina uscì dalla fase più buia del suo dopoguerra nel 1978. Fu una svolta netta, di 180 gradi, e conosciamo gli effetti giganteschi che ha prodotto. Se però andiamo a ricordare la percezione che della Cina ebbe il resto del mondo negli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta vediamo che quasi nessuno si accorse sul serio della portata di quello che stava succedendo.
La Cina continuò per un tempo lunghissimo a essere vissuta, sul piano economico, come una quantité négligeable. I modelli econometrici delle banche centrali, incluso quello della Fed, non includevano nemmeno i paesi emergenti. Questo, ovviamente, comportò per anni, tra le altre cose, una sottostima della crescita globale e del potenziale di rialzo dei prezzi delle materie prime.
È solo un esempio, tra i tanti, di come non siamo capaci di cogliere le tendenze più grandi che ci passano sotto il naso, semplicemente perché escono dai nostri schemi. I nostri sensori non sono tarati per rilevarle.
Vista questa incapacità, proviamo una certa invidia per tutti quelli che, in questo momento, esprimono idee forti e decise sul mondo e sui mercati. La produzione di economisti e analisti che affermano di avere capito tutto non va mai in crisi. Una parte di loro è oggi sicura che il mondo sta entrando in recessione, un’altra che tutto continuerà ad andare bene, quanto meno nei paesi sviluppati. Molti si dicono certi che l’inflazione risalirà presto, molti altri affermano perentoriamente che siamo già entrati nella morsa mortale della deflazione permanente. Solo per fare un esempio del bombardamento cui tutti siamo sottoposti, nel giro di pochi minuti ci è capitato di leggere una raccomandazione d’acquisto sulle borse emergenti da parte di una grande banca inglese (un’occasione così si presenta una volta al decennio) e una di vendita da parte di una grande casa giapponese, convinta che il bear market del settore abbia ancora molta strada da percorrere.
Intendiamoci, il gioco a chi grida più forte è parte integrante della vita dei mercati e spesso, nelle argomentazioni di chi alza la voce ci sono stimoli preziosi. Francamente, però, il mondo che riusciamo a vedere si dispone in questo momento più su una serie di tonalità di grigio che su colori forti.
Più che il 2008, il ricordo che ancora ci spaventa, questa fine 2015 ricorda aspetti delle due crisi degli anni Novanta, il 1994-95 e il 1997-98. Oggi gli anni Novanta sono vissuti con nostalgia come un periodo di relativa stabilità geopolitica e di forte crescita dell’economia e delle borse. In un momento in cui gli elettori americani mostrano una forte voglia di volti nuovi, Hillary Clinton, che volto nuovo non è, fa leva sul ricordo di quegli anni, quando clintonismo significava centrismo, tranquillità e prosperità.
Le due crisi di quel periodo, tuttavia, non furono affatto indolori. Il 1994, quando si capì che il rialzo dei tassi cominciava a essere una cosa seria, vide un trilione di dollari andare in fumo per la caduta dei bond. L’aumento dei rendimenti mise sotto pressione i debitori più deboli e fece parlare di possibile default per Italia e Canada.
Il 1997-98, dal canto suo, vide di nuovo una forte discesa dei bond, un bear market delle materie prime di proporzioni paragonabili a quello di oggi, il crollo delle valute asiatiche e il default a catena di molte società di paesi emergenti e della Russia. Alcune borse emergenti giunsero a perdere il 70-80 per cento del loro valore. L’indice ISM del settore manifatturiero, ha fatto notare David Rosenberg, scese in America sotto 50 per tutta la seconda metà del 1998.
A differenza che nel 2008, quando crollò tutto (con la sola eccezione della Cina), le due crisi degli anni Novanta videro pesanti sfaldamenti alla periferia del sistema (con un coinvolgimento, come abbiamo visto, del manifatturiero americano) ma una tenuta del centro. E se il centro del sistema sono Stati Uniti e (in misura minore) Europa, il centro del centro è il consumatore americano, che da solo costituisce il 70 per cento del Pil. Nel 1997-98, mentre le borse tremavano, i consumi americani continuarono tranquillamente a crescere a una velocità annualizzata del 5 per cento.
Anche oggi, mentre ci concentriamo sulle difficoltà di materie prime, emergenti e manifatturiero, il consumatore americano, grazie ai 200mila posti di lavoro creati ogni mese, procede solido e imperterrito. Certo, il ritmo di crescita dei consumi è la metà di quello dei felici anni Novanta, ma è più sano, perché non è drogato dal credito. Oggi per comprare una casa occorre versare il 25 per cento in contanti, allora bastavano una firma e un mutuo. In queste condizioni è difficile pensare a un collasso improvviso dei consumi come quello del 2008-2009.
Quanto alle politiche monetarie, significherà pur qualcosa che dal 2009 a oggi, pur tra grida esagitate di inflazione e di deflazione, non abbiamo avuto né l’una né l’altra. Pur tra esitazioni e contraddizioni, le banche centrali ci hanno pilotato in una grigia terra di mezzo. Lo hanno fatto con un occhio rivolto ai modelli (che da tempo invitano ad alzare i tassi) e con l’altro rivolto alla realtà (che da tempo invita ad abbassarli) e hanno finora trovato un compromesso accettabile. Può darsi che sia stata solo fortuna e che la situazione sia più rischiosa di come appare, ma al momento non troviamo elementi che facciano pensare che tutto stia sfuggendo di mano.
Ogni crisi, nel momento in cui la si attraversa, appare più pesante delle precedenti e impossibile da superare. Ricordiamo però che il Pil degli emergenti asiatici scese a due cifre nel 1997-98, mentre quello cinese, quest’anno e il prossimo, salirà anche nelle stime del più tenebroso tra i pessimisti di almeno il 3-4 per cento. La Cina è sopravvissuta a una pesante crisi del mercato immobiliare, iniziata due anni fa e oggi terminata senza avere provocato tutti i disastri bancari e sistemici di cui si era tanto parlato. È ben possibile, se non probabile, che lo stesso avvenga nel manifatturiero nei prossimi due anni.
Per chi investe, il fatto che il mondo appaia meno invitante di un anno fa induce giustamente a una maggiore prudenza. Le aspettative di rendimento, su bond e azioni, sono oggi più realistiche. Ci aspettano anni molto meno brillanti di quelli che ci stiamo lasciando alle spalle, ma questo non significa che sia già arrivato il momento di rifugiarsi nel cash o in qualsiasi altro bene rifugio. Continuiamo a pensare che ci sia spazio per un recupero di qui a fine anno. Un recupero grigio, naturalmente.