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BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Non c’è odore di bolla ma occhio a Grexit

Frasi fatte 1. Le frasi fatte, in generale, non sono necessariamente sbagliate. Spesso nascono corrette, ma la ripetizione costante e la pigrizia mentale le consumano fino a svuotarle e a renderle alla fine fuorvianti. In questo periodo, ad esempio, si cita spesso l’adagio per cui finché non c’è un’euforia diffusa non c’è da avere paura e si può tranquillamente comprare anche quello che è già molto salito. La prova più citata della mancanza di euforia è la scarsa partecipazione al rialzo degli emotivi investitori individuali, che in questo ciclo si affidano più che in passato a gestioni professionali. Mancano i tipici segnali di febbre, come ad esempio gli articoli dedicati al rialzo sulla prima pagina dei giornali non finanziari, le code per partecipare alle nuove emissioni, l’infittirsi dei casi di persone che si licenziano per potersi dedicare a tempo pieno al trading. Manca, soprattutto, l’uso massiccio della leva finanziaria.

In tutto questo c’è del vero, naturalmente. Nella fisiologia delle bolle esiste sempre una fase finale patologica e parossistica. Nella Amsterdam dei tulipani molti lasciarono il loro lavoro per fare trading sui bulbi. Nella New York del 1928-29 i lustrascarpe di Wall Street che correvano a comperare a margine (cioè a leva) i titoli di cui avevano sentito parlare bene dai loro clienti divennero il simbolo della nuova febbre. Nel 1999 l’on line trading, unito a un uso aggressivo della leva, divenne un fenomeno collettivo. Nel 2007-2008 la fase finale del boom sulla casa creò in America molti immobiliaristi improvvisati che compravano case per rivenderle pochi giorni dopo a un prezzo più alto. Se però tutte le bolle hanno il finale euforico e poi il crash, non tutti i crash sono preceduti da fasi di euforia. Un esempio è il 1987, quando il crollo di ottobre avvenne in un contesto di complacency, ma non di euforia. La complacency, il ritenersi immunizzati dal rischio, è la sorella fredda e calma dell’euforia. Non genera comportamenti bizzarri e infonde al contrario una sensazione di serenità. Nel 1987 si pensava di avere trovato, con l’uso di opzioni e stop loss, il modo sicuro per proteggersi da brutti imprevisti. Nel 2008 fu il crollo dell’immobiliare a contagiare le borse, che di loro non stavano vivendo una stagione euforica o di drammatica sopravvalutazione (il mercato era sceso per undici mesi prima del crash di Lehman). Oggi si pensa che il Quantitative easing offra una rete molto solida sotto le quotazioni raggiunte dai mercati. È un atteggiamento di complacency, per ora giustificato, ma da tenere d’occhio. È anche vero che le borse non sono a livelli patologici, ma l’azionario, come nel 2008, potrebbe un giorno essere vittima del contagio dall’esterno, ad esempio dall’obbligazionario. La complacency, insomma, è molto più insidiosa dell’euforia e proprio per questo va tenuta sempre in considerazione.

Frasi fatte 2. Il mercato, si dice ancora in questa fase, non potrà scendere finché i fondamentali macro e societari rimarranno buoni, equilibrati e stabili. Anche questo adagio, però, nasconde un pericolo, quello di non considerare la retroazione (il cosiddetto Minsky moment) che mercati sempre più cari possono esercitare sui fondamentali. È quello che successe nel decennio scorso. L’inflazione era bassa, la crescita buona e la politica economica appariva saggia, efficace e disciplinata. Peccato che, proprio per questo, i mercati si sentirono autorizzati a lasciarsi andare sempre di più, fino a crollare rovinosamente, coinvolgendoli nella caduta, su quei bellissimi fondamentali. Quanto all’idea, anche questa ampiamente ripetuta di questi tempi, che il primo rialzo dei tassi non abbia mai fatto cadere le borse, storicamente è vera. In passato, tuttavia, non si era mai aspettato così a lungo per avviare un ciclo restrittivo. Il rischio, questa volta, è che si aspetti così tanto da ingenerare nei mercati l’attesa che, una volta avviata, la politica restrittiva sia implementata in fretta e furia e con particolare aggressività. Siamo ancora lontani da questa possibilità, ma cerchiamo di non dimenticarcene. In pratica, come si vede, non esistono semplici formule magiche che ci garantiscano da brutte sorprese. Il quadro va sempre considerato nel suo insieme.

Grexit. La paralisi delle trattative con la Grecia comincia a diventare inquietante. Viene talvolta il sospetto che Tsipras sia convinto di durare comunque poco e voglia spendere questi suoi pochi mesi vivendo una vita splendida e spericolata (o l’ottenimento di grandissime concessioni dall’Europa o l’uscita di scena a testa alta, avendo comunque salvato l’onore). Un compromesso dell’ultima ora (che tecnicamente non esiste, perché l’Europa può mantenere intubata la Grecia finché ha voglia di farlo) è sempre possibile, ma è anche possibile che a qualcuno saltino i nervi, magari ai mercati. Schaeuble butta lì sempre più spesso che la struttura dell’Eurozona va rafforzata. È possibile, quindi, che una rottura con la Grecia venga seguita immediatamente da qualche promessa di maggiore coesione tra gli altri membri. Nel caso peggiore le conseguenze per i mercati sarebbero sicuramente spiacevoli ma non prolungate. Le banche centrali cercherebbero di stabilizzare i cambi e la Bce sosterrebbe i bond con il Qe. Più insidiosi gli effetti di medio-lungo periodo. Alla fine del Qe o al primo segno di affievolimento del ciclo europeo, i mercati inizierebbero a speculare sulla prossima vittima.

Utili. I primi utili, in America, stanno uscendo al di sopra delle previsioni. Chi ha da presentare qualcosa di brutto, lo accompagna immediatamente con un buy back e si fa perdonare. A lungo andare questi buyback a prezzi sempre più alti si riveleranno forse un’allocazione infelice di risorse. Nel breve, tuttavia, una borsa americana in buona salute potrà essere un sostegno importante in caso di turbolenza da Grexit.

Dollaro. Olivier Blanchard del Fondo Monetario ha sintetizzato bene la situazione. La rivalutazione del dollaro, fino a questo momento, è stata pienamente giustificata e, per il momento, le principali valute si trovano a un livello corretto ed equilibrato. È possibile, aggiungiamo noi, che l’euro torni in futuro a recuperare qualcosa del 25 per cento che ha perduto. Ma non nel breve termine.

Petrolio. Il quadro è molto fluido. Il mercato sta dando molto peso alla riduzione del numero di pozzi in funzione negli Stati Uniti. In realtà, strutturalmente, è ancora più importante il congelamento, se non la cancellazione definitiva, di alcuni grandi progetti di estrazione che avrebbero dovuto entrare in produzione nei prossimi anni. Accanto a questo, tuttavia, va segnalato che molti paesi Opec (tra cui l’Arabia Saudita) e la Russia stanno producendo più di prima e hanno tutta l’intenzione di continuare a farlo. Dovendo scommettere, è probabile che alla fine del 2016 il prezzo del Brent sia più vicino ai 70 dollari che ai 40, ma il percorso sarà accidentato e non ci stupirebbe di rivedere temporaneamente i minimi nel corso di quest’anno.

Meglio il rublo dell’euro. In questi mesi si è parlato molto del drammatico e incontrollato crollo del rublo, ennesima prova dell’estrema fragilità di una Russia piagata dalle sanzioni internazionali, dalla caduta libera del petrolio e del gas natural, da tassi d’interesse vicini al 20 per cento, da imponenti fughe di capitali e da una guerra a intermittenza sul confine ucraino. Si è anche parlato molto della brillante e ordinata correzione dell’euro, che non mancherà di avere, insieme al crollo del greggio e ai tassi a zero, conseguenze molto positive sulla crescita europea. Partendo dai livelli di un anno fa esatto, vediamo in effetti che il rublo ha perso rispetto al dollaro un rovinoso 29 per cento. L’euro, dal canto suo, nello stesso periodo si è comunque indebolito anch’esso del 23 per cento. Il rublo ha dunque perso l’8 per cento rispetto all’euro. Chi però, un anno fa, avesse aperto un deposito euro rinnovabile ogni tre mesi non avrebbe incassato d’interesse quasi nulla. In rubli, invece, un deposito a tre mesi ha reso complessivamente il 13 per cento. Se ne conclude che l’investimento in rubli ha reso di più di quello in euro.

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