Il Congresso di Vienna durò dal settembre 1814 al giugno 1815. Fu il primo consiglio europeo dei capi di stato. Formulò la strategia generale per il riassetto del continente dopo tre decenni di sconvolgimenti della millenaria struttura feudale dovuti alla Rivoluzione Francese e alle guerre napoleoniche. Calcolò e ripartì tra i vincitori i risarcimenti territoriali, istituì da zero nuovi stati, restaurò dinastie e regolò minuziosamente l’assetto dei poteri e le sfere d’influenza di regni, principati, ducati, stati, staterelli e loro colonie nei cinque continenti. Il tutto in nove mesi e senza disporre di aerei, videoconferenze e smartphone. La Conferenza di Pace di Parigi durò dal gennaio 1919 al gennaio 1920. Disponendo solo di telefono e telegrafo, di treni e di navi ma non di aerei, riorganizzò il mondo uscito dalla Grande Guerra.
Le sue 52 commissioni di lavoro dissolsero tre imperi, crearono una decina di nuovi stati, dalla Palestina all’Armenia alla Cecoslovacchia, sistemarono il Pacifico, verificarono e modificarono l’intero assetto coloniale globale, ridisegnarono la carta geografica dell’Europa, gettarono le basi per la Lega delle Nazioni e trovarono anche il tempo di assecondare la Grecia realizzandone la Megali Idea (la grande idea) dell’espansione territoriale verso la Tracia, l’Epiro settentrionale e l’Asia Minore. Il tutto in 12 mesi. La Conferenza di Teheran del 1943 durò cinque giorni. Sette giorni furono necessari per quella di Yalta nel febbraio 1945 e cinque bastarono per quella di Potsdam le luglio dello stesso anno. In 17 giorni totali, le tre conferenze concordarono la strategia di guerra, prepararono il dopoguerra, ridisegnarono di nuovo l’atlante del mondo, divisero l’Europa in due, esaminarono e scartarono la proposta britannica di trasformare la Germania in un paese di agricoltura e pastorizia, spostarono la Polonia verso occidente di qualche centinaio di chilometri, cancellarono gli stati baltici, crearono la Mongolia, ripristinarono la Corea, soppressero lo stato mancese, ritoccarono i confini cinesi, verificarono l’assetto coloniale e prepararono le line guida per l’istituzione delle Nazioni Unite.
Stalin e Churchill, che secondo alcuni storici furono negoziatori non meno tosti di Tsipras e Juncker, riuscirono a litigare solo sulla Grecia ma trovarono velocemente un accordo in base al quale l’Unione Sovietica si teneva il 10 per cento di influenza sul paese e la Gran Bretagna il 90 restante. Se fosse stato il contrario la Grecia sarebbe forse oggi un paese liberista a basso welfare e basso debito e fiscalmente prudentissimo, come lo sono tutti i paesi usciti dall’orbita sovietica. La conferenza di Bruxelles sull’aumento dell’età pensionabile in Grecia, iniziata nel febbraio 2015, ha già raggiunto il suo quinto mese. Si tratta di una conferenza globale perché non coinvolge solo i 19 capi di stato e i 19 ministri delle finanze dell’Eurozona, la Bce e la Commissione ma anche gli Stati Uniti che, come si è scoperto, intercettano tutte le telefonate tra i negoziatori e poi chiamano subito dopo per dire la loro. La conferenza si svolge giorno e notte e i poveri negoziatori, che sono costretti a ritmi massacranti, trasmettono crescente stanchezza e irritazione. Lontane e sbiadite appaiono le immagini di Stalin, Roosevelt e Churchill che negoziavano rilassati sotto le palme e le brezze dei giardini dell’albergo di Yalta, con vista sul Mar Nero, o quelle di Truman, Stalin e Churchill sorridenti sotto i tigli del castello di Potsdam nel luminoso sole di luglio. Erano tempi semplici.
Sia come sia, fra poco sapremo se la Grecia, lunedì, inizierà il suo cammino di uscita dall’eurozona o se, in alternativa, verrà sommersa da nuovi sostanziosi aiuti. Il mondo, che in gennaio non si era nemmeno accorto della silenziosissima entrata della Lituania nell’euro, è pronto a seguire con il fiato sospeso l’eventuale uscita della Grecia. Che quasi sicuramente non ci sarà ma che, se ci fosse, confermerebbe la reversibilità della valuta unica. Scandalo. C’è un vecchio detto secondo cui un banchiere che, in tempi di crisi finanziaria, sente il bisogno di dichiarare che la sua banca è solida è già fuori tempo massimo, perché dà prova di debolezza. L’euro è l’unica valuta del mondo di cui periodicamente si senta il bisogno di proclamare l’irreversibilità, un evidente segno di debolezza. Per questo, pur augurandoci di cuore che l’euro abbia lunga vita e pur avendo una ragionevole fiducia nel fatto che l’avrà, suggeriamo da anni di aumentare la solidità e la stabilità dei portafogli tenendo una congrua quota di dollari, con lo stesso spirito con cui una volta si teneva sempre un po’ di oro, senza badare troppo alle fluttuazioni di prezzo. L’euro è stressante, è una continua esperienza di quasimorte seguita da resurrezione. In un portafoglio costruito su Marte sarebbe perfetto come elemento satellite, in cui entrare e da cui uscire, di un nucleo duro fatto di dollari e renminbi.
Il Piano dei Cinque Presidenti uscito in questi giorni (interessante coincidenza) va nella direzione dell’irreversibilità attraverso la creazione di una tesoreria unica federale e l’avvio di elementi di politica fiscale comune, ma ha tempi lunghissimi. Nulla, in ogni caso, verrà toccato prima delle elezioni francesi del 2017. Nei fatti la volatilità, più che sull’euro in sé, si scarica sulle borse continentali. È già un grande progresso rispetto a tre anni fa, quando anche i bond della periferia viaggiavano tra la quasi-morte e la resurrezione. Se lunedì, come ci auguriamo e riteniamo probabile, la Grecia sarà ancora tra noi, le borse continentali si concederanno un’estate di rialzi che potrebbero portarle vicino, ma non oltre, i recenti massimi di aprile. Saranno da preferire i ciclici e le banche. I bond di qualità, in cambio, avranno un po’ da soffrire ma non molto, perché hanno già dato parecchio nella brusca caduta di prezzo delle settimane scorse. Gli spread della periferia, ovviamente, si ridurranno. Archiviata e presto dimenticata la questione greca, si tornerà prima o poi a discutere sul rialzo dei tassi. L’avanzata delle borse farà tornare di attualità il problema. L’Europa non toccherà i tassi di policy fino al 2017, ma una certa tensione si avvertirà comunque sulle scadenze lunghe. Torneremo presto sulla questione.