Quest’anno bisognerebbe anticipare le vacanze di Natale. Si dovrebbe partire subito e tornare il più possibile riposati a fine mese. Da qui ad allora succederà infatti ben poco e il mercato sarà interessante solo per i trader, ai quali continuerà a offrire un canale di oscillazione ben definito.
Dicembre sarà invece molto vivace. Un mese che è dedicato di solito alla chiusura delle posizioni, alla redazione di enormi documenti di previsione sull’anno successivo (che nessuno ha il tempo di leggere perché bisogna girare da un Christmas party all’altro) e a un rialzo finale senza troppo costrutto sarà quest’anno aperto fino all’ultimo a sviluppi imprevedibili.
Se tutti sanno che il 3 dicembre la Bce dovrà annunciare qualcosa di espansivo, nessuno ha chiaro fino a che punto si spingerà. Porterà i tassi ancora più sottozero? Di quanti mesi prolungherà il Quantitative easing che dovrebbe scadere in settembre? Di quanto ne amplierà la portata? Quali altri titoli, oltre ai governativi e ai paragovernativi, vorrà includere? E soprattutto, quanto di tutto questo è già scontato dai bond, dalle borse e dal cambio dell’euro?
Quali che siano le decisioni della Bce, la reazione dei mercati sarà relativamente breve, perché sarà comunque rischioso assumere posizioni troppo aggressive in vista della riunione della Fed del 16, più aperta che mai. Se infatti i tassi americani verranno lasciati a zero vedremo un recupero dell’euro e una fiammata al rialzo per crediti e borse. Se verranno invece alzati, come riteniamo più probabile, l’euro si indebolirà ulteriormente e le borse chiuderanno l’anno tra ampie fluttuazioni e vicino ai valori attuali.
Non bastasse il ricco menù di misure monetarie, il 20 dicembre si voterà in Spagna. Rajoy ha fissato le elezioni, che devono essere comunque tenute quest’anno, il più tardi possibile per dare modo alla ripresa economica di dispiegare i suoi effetti anche sulla percezione degli elettori e i sondaggi sembrano dare ragione a questa scelta. Il caso portoghese, tuttavia, è lì a dimostrare che il risanamento economico può evitare derive populiste radicali, ma non mette al riparo dall’instabilità politica e dalla tentazione di cavalcare le ampie sacche di malessere prendendo le distanze dall’Europa e dal rigore di bilancio.
La Spagna ci ricorda dunque che quei rischi geopolitici che non mancavano mai di essere segnalati da tutti gli analisti di mercato negli anni tra il 2011 e il 2014 e che sono lentamente scivolati sullo sfondo delle nostre preoccupazioni sono ancora tutti lì dove li abbiamo lasciati. La calma di queste giornate di attesa delle grandi decisioni di dicembre ci dà l’occasione per una breve rassegna di questi rischi e delle possibili implicazioni di mercato.
Il paragone con il 2011, l’anno in cui si è parlato di più di geopolitica, non è lusinghiero. Le primavere arabe hanno creato qualcosa di positivo, forse, solo in Tunisia. Per il resto il bilancio è sconsolante. I tiranni sono stati rimpiazzati dal caos, come in Libia e nel Levante, o da tiranni più efficienti che governano con il pugno di ferro società profondamente divise come quella egiziana.
Il Levante si è balcanizzato ed è attraversato da tensioni profonde tra sciiti e sunniti, iraniani e sauditi, turchi e curdi, sunniti ultraradicali e sunniti delle monarchie tardofeudali. L’Iran è più vicino alla bomba di quanto non fosse nel 2011 e alla grande corsa agli armamenti nucleari si sono iscritti nel frattempo anche l’Egitto e l’Arabia Saudita. Siria, Libano e Iraq sono ormai suddivisi in almeno tre parti ciascuno. L’Isis, come dice Richard Haass, una delle menti migliori della politica estera americana, è destinato a rimanere tra noi non per mesi ma per molti anni. E non è un mistero che l’Isis veda come sua naturale espansione gli eredi dei due regni in cui si divideva la penisola arabica fino al 1932, l’Hejaz, ridotto oggi alla Giordania, e il Nejd, governato da tre secoli dalla casa di Saud.
Se una situazione pesantemente deteriorata desta oggi meno preoccupazioni nei mercati rispetto al 2011 è perché il greggio è sceso nel frattempo da 110 a 45 dollari. Tutti o quasi, giustamente, ce ne rallegriamo ma più a lungo il petrolio resta su livelli depressi, più velocemente si consuma il tesoro della casa di Saud. Un’Arabia costretta prima o poi a tagliare le spese militari e l’imponente welfare con cui compra il consenso della sua popolazione si troverà sempre più esposta a un’aggressione dell’Isis. Certo, anche un Isis trionfante si troverebbe a dovere esportare un po’ di petrolio per finanziarsi, ma la produzione dei suoi territori subirebbe comunque un durissimo colpo. In un mondo che cresce poco un’impennata del greggio, anche solo di qualche mese, potrebbe significare una nuova recessione.
Quanto all’atomica iraniana, Israele ha per il momento deciso di abbassare i toni. Con Obama alla Casa Bianca alzare il livello dello scontro con l’Iran non conviene. Le cose potranno però cambiare fra un anno, quando qualcuno prenderà il suo posto.
La politica estera americana è considerata debole e confusa da molti osservatori, ma ha quanto meno un minimo di coerenza. È un divide et impera che copre un disimpegno crescente con un’aggressività quasi arbitraria verso situazioni particolari coma la Russia. Fra un anno però tutto potrebbe cambiare e non è per niente chiaro se in meglio o in peggio.
La Cina, in termini geopolitici, non è un rischio per la sua aggressività verso i vicini (qualche isoletta contesa non scatenerà nessun conflitto serio). Più difficile è scommettere sulla tenuta interna del consenso. Con una crescita in continuo calo, il consenso rimarrà solo se i consumi riusciranno comunque a crescere e se la classe dirigente manterrà la sua moralità su livelli che non si allontanino troppo dai parametri confuciani.
La Russia si salva per il realismo di Putin. Il petrolio a 45 dollari costringe ad abbassare il tiro e a rallentare per non deragliare. Putin si inventa così l’intervento militare in Siria per coprire brillantemente l’allentamento della presa sull’Ucraina orientale. L’obiettivo è la fine delle sanzioni e il rilancio delle relazioni con l’Europa.
La nostra Europa è destinata a rimanere un punto delicato dello scacchiere geopolitico. L’Unione può resistere a una bassa crescita e a un’esplosione dell’afflusso di profughi. Finché c’è un minimo di crescita la radicalizzazione politica è gestibile. Se però un giorno una nuova recessione dovesse sovrapporsi a un flusso incontrollato di immigrazione tutti i fragili equilibri potrebbero saltare.
Come si vede, il mondo è pieno di problemi e i rischi non mancano. Il fatto che per i mercati questi rischi siano asintomatici è ovviamente positivo, ma non deve illudere sul superamento dei problemi sottostanti, che in qualche caso, come abbiamo visto, continuano ad aggravarsi. Una nuova recessione li farebbe del resto rapidamente impennare.
Nel breve possiamo però mantenerli sullo sfondo e dedicarci a questioni di tattica. In vista di un dicembre complicato suggeriamo di mantenere posizioni non troppo aggressive. Un moderato sovrappeso di dollaro e azionario europeo dovrebbe permettere di trarre beneficio dallo scenario più probabile (Qe2 in Europa e rialzo dei tassi in America) senza mandarci a gambe per aria se la Fed, ancora una volta, dovesse lasciare tutto come sta.