Il petrolio crollò a 9 dollari nell’estate del 1986. Ne soffrirono ovviamente i paesi produttori, il cui debito dovette essere in molti casi ristrutturato, ma le borse occidentali festeggiarono (con la parentesi del crash dell’ottobre 1987) fino al momento in cui il greggio risalì fino a 41 dollari del settembre 1990. Saddam Hussein aveva appena invaso il Kuwait e si profilava all’orizzonte la prima guerra del Golfo.Si ridiscese di nuovo a 11 dollari tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999, quando l’Economist pubblicò la famosa copertina “Annegando nel Petrolio” e azzardò la previsione di una discesa ulteriore a 5 dollari. In borsa portarono il lutto solo i titoli delle materie prime. Tutto il resto salì spensieratamente, tanto da formare la più grande bolla azionaria fino ad allora conosciuta.Il petrolio, negli anni successivi, non andò a 5 dollari, ma si inerpicò con slancio crescente fino ai 146 dollari del luglio 2008. Si pensava che i combustibili fossili stessero per esaurirsi e alcuni analisti si spinsero a prevedere come imminente il livello di 250 dollari.Si scese invece a 34 cinque mesi dopo, nel punto più buio della Grande Recessione. Il crollo del greggio dette un importante contributo alla ripresa globale dell’economia e delle borse.Come si vede da questi esempi, le brusche e pesanti cadute del petrolio non hanno mai preceduto lunghe e terribili recessioni o rovinosi bear market azionari, bensì il loro contrario.
A partire dal 1973, del resto, crisi petrolifera ha sempre designato uno scenario di energia improvvisamente scarsa e costosa. Solo nel mondo rovesciato di oggi, quello che si augura più inflazione e si accontenta di tassi d’interesse negativi, si vive con ansia e preoccupazione, quasi fosse una nuova crisi petrolifera, la straordinaria abbondanza di energia a buon mercato, fossile e non. È bene ricordare, nella confusione delle idee che sembra prevalere, che la caduta del greggio è effetto di un eccesso di offerta e non di una scarsità di domanda. La domanda, è vero, non cresce molto, ma questo è l’effetto della maggiore efficienza con cui consumiamo energia e del crescente uso delle rinnovabili, due fattori da considerare positivi. I paesi produttori, duramente colpiti, fanno la cosa giusta e svalutano la loro moneta.
Si fermerà l’eccesso di offerta di petrolio? Certo, ma non subito. I progetti avviati negli anni scorsi e già in larga misura spesati vengono mantenuti eportati a termine, immettendo così altro greggio sul mercato. Gli investimenti ancora sulla carta vengono invece cancellati uno dopo l’altro. Per ancora un anno avremo dunque un eccesso di offerta, poi le cose si normalizzeranno e il prezzo si riprenderà, anche se resterà a lungo a livelli depressi. La Cina, la seconda grande paura dei mercati, è importatore di materie prime e beneficia come noi della loro caduta. Il cambio del renminbi si è molto apprezzato in questo anno passato e ora la Cina, correttamente, intende stabilizzarlo, annunciando che non seguirà il dollaro in ulteriori rivalutazioni quando i tassi americani verranno alzati. Non c’è nessuna guerra valutaria, tanto che l’amministrazione Obama e la Fed hanno manifestato comprensione per la decisione di correggere e rendere più libero il renminbi.
La borsa di Shanghai, dal canto suo, sembra avere trovato un certo equilibrio. Certo, è un equilibrio volatile, ma con buone ragioni. Si tratta infatti, da parte del governo cinese, di sostenere i corsi da un lato, ma di educare il pubblico alla rischiosità dell’investimento azionario dall’altro. Il mondo chiede alla Cina di liberalizzare il più possibile ma la liberalizzazione porta a dislocazioni (inclusi fallimenti) nel mondo produttivo e a volatilità sul cambio e in borsa. È un prezzo inevitabile, che porterà però benefici nel medio termine. Il governo cinese, del resto, è diventato più autoritario e intrusivo sul piano politico proprio perché ha in corso una liberalizzazione su quello economico. Per il momento tutto fa pensare che abbia il controllo della situazione, che sappia quello che fa e che vada nella direzione giusta. La terza preoccupazione dei mercati in questo agosto inquieto è per la crescita europea. Il secondo trimestre è stato meno brillante del primo e questo ha indotto molti a pensare che gli effetti del Quantitative easing della Bce si stanno già affievolendo. In realtà, a ben vedere, per il momento è solo un effetto scorte. Nel primo trimestre, sull’onda dell’entusiasmo per il Qe, le imprese hanno aumentato la produzione e riempito i magazzini senza prendere bene le misure. Nel secondo trimestre, a domanda finale costante (cioè sempre buona), hanno svuotato gli eccessi di scorte e la produzione è risultata leggermente penalizzata. Le esportazioni, nonostante la crisi di molti paesi emergenti, sono andate bene.Certo, l’avvio del Qe ha creato un eccesso di entusiasmi, ma ora siamo all’eccesso opposto. L’euro è un po’ più forte nei confronti delle valute emergenti ma rimane molto competitivo. Il Qe continua, i tassi sono ridiscesi, il petrolio costa sempre meno. Si tratterà ovviamente di riorientare le esportazioni dagli emergenti agli Stati Uniti, ma per una Mercedes in meno venduta in Kazakhstan ce ne sarà una in più venduta negli Stati Uniti.
In conclusione, il mondo cresce poco e non sta accelerando come si era sperato, ma non è avviato a una recessione. Il rialzo dei tassi americani sarà modesto, lento e pronto a essere interrotto al minimo segnale di debolezza dell’economia. I bond di qualità avranno poco da soffrire. Tra le borsepreferiamo l’Europa, in particolare dopo la caduta di queste ultime settimane. In America invece, come dice efficacemente David Kostin, flat is the new up.