Più costi per la raffinazione, ma nessun problema di approvvigionamento e modesto impatto sulla bolletta petrolifera. E’ questo, secondo quanto stimato dall’Unione petrolifera, il rischio legato al blocco delle esportazioni di petrolio dalla Libia, deciso dal generale Khalifa Haftar dopo l’escalation di tensioni nel Paese nordafricano. Per l’Italia, le importazioni di greggio dalla Libia pesano il 12% sul totale delle importazioni, e l’Unione petrolifera rileva che nel 2019, dopo il picco negativo del 2016 quando erano scese al 5% del totale, sono cresciute rispetto agli anni precedenti, trattandosi di una fonte di approvvigionamento storica e vicina (nel 2007 e 2008 era arrivata a sfiorare il 30% dell’import totale). Nello specifico dei greggi, i quantitativi provenienti dalla Libia lo scorso anno hanno sfiorato i 7 milioni di tonnellate, con un aumento di circa il 21% rispetto all’anno precedente.
Il greggio libico, anche se di qualità particolarmente alta, è comunque sostituibile con altri provenienti da diversi paesi: Africa (Algeria, Nigeria, Gabon, Angola), Mare del Nord, Azerbaijan. La sostituzione tuttavia comporta, come rivela UP, costi di approvvigionamento leggermente superiori, soprattutto per ciò che riguarda i costi di trasporto, per ovvi motivi: una stima dei maggiori oneri per il sistema della raffinazione nazionale, su base annua, sarebbe dell’ordine di 60 milioni di euro (circa 1,3 dollari al barile in più). Il che risulterebbe poco rilevante come impatto sulla bolletta petrolifera, stimato intorno allo 0,2%.
Ma i problemi scatenati dalla crisi libica sono più ampi: come è noto, tutte le principali raffinerie italiane importano e lavorano greggio libico. L’azienda più esposta è ovviamente Eni, tant’è che recentemente l’Ad Claudio Descalzi è intervenuto avvisando che la situazione in Libia “si sta complicando e c’è preoccupazione perché il blocco della produzione è come togliere ossigeno al Paese e alla popolazione. Sono già 12 giorni – ha detto mercoledì 29 gennaio – che la produzione è chiusa: non posso decidere io, ma la raccomandazione è di riaprirla”. Ricordando che la conferenza di Berlino non ha dato i risultati sperati, Descalzi ha così rivolto un appello alla diplomazia e alla comunità internazionale.
Per Eni il blocco è un ulteriore colpo, dopo che due mesi fa lo stabilimento di El Feel, nel sud del Paese, era stato chiuso in seguito all’esplodere delle tensioni militari in un’area distante proprio pochi chilometri. El Feel, della joint venture Mellitah Oil and Gas (partecipata da Eni al 50%), è un giacimento controllato dal generale Haftar, capace di una produzione giornaliera comunemente stimata in 70-75 mila barili di petrolio. Di recente l’impianto ha ripreso a funzionare, ma con rilevanti tagli alla produzione in seguito alla forzata chiusura.