In Birmania trionfa Aung San Suu Kyi. Nell’ex capitale Rangoon, la “Lega nazionale per la democrazia” guidata dalla leader dell’opposizione (e icona dei diritti umani) ha conquistato 12 seggi della Camera bassa del Parlamento, mentre il partito di governo Usdp (“Partito di unione, solidarietà e sviluppo”) non ne ha vinto nessuno. Lo ha annunciato la Commissione elettorale, iniziando a diffondere i primi dati ufficiali. In città si assegnano 45 seggi.
“E’ troppo presto per parlare del risultato, ma credo che ne abbiate tutti un’idea”, ha detto questa mattina San Suu Kyi davanti a una folla di sostenitori in festa già da ieri sera. Da parte sua, l’Usdp ha ammesso la sconfitta alle elezioni di ieri: lo scrive in un tweet l’emittente nazionale cinese Cctv.
L’arrivo al potere di Aung San Suu Kyi giungerà con 25 anni di ritardo. La “Lady” aveva vinto le elezioni già nel 1990 (allora era agli arresti domiciliari). Con un quarto di secolo in più sulle spalle e il riconoscimento internazionale, dopo il premio Nobel per la pace, la figlia del fondatore della Birmania indipendente si troverà a dover formare un governo, probabilmente anche facendo compromessi con chi è sostenuto dai quei militari che hanno schiacciato per decenni le speranze di libertà del suo popolo.
Nei giorni scorsi “Amay” (“Madre”) Suu ha alternato dichiarazioni più morbide a prese di posizione più nette, come quando ha chiarito che sarà numero uno del governo, ma “sopra il presidente” a dispetto della norma costituzionale. Una presa di posizione motivata dal fatto che la leader democratica non può diventare presidente, in base alla costituzione fatta approvare dai militari, che impedisce a chi ha un congiunto – coniuge o figli – con cittadinanza straniera, e lei ha avuto un marito e ha due figli britannici, di ascendere alla più alta carica del paese.
“Questa elezione è una grande chance di cambiamento per il nostro paese. Il genere di cambiamento che non arriva che una volta nella storia”, ha confidato la premio Nobel in un incontro a Yangon qualche giorno fa. E la “grande speranza di democrazia” è incarnata da lei, ha sottolineato Phil Robertson, rappresentante di Human Rights Watch. D’altronde, a dimostrarlo, è la folla che ha circondato festosa la sede del suo partito immediatamente dopo il voto. E risultati elettorali che potrebbero sancire una vittoria schiacciante.
E’ una responsabilità enorme, che in un primo momento Aung San Suu Kyi non aveva cercato. Dopo l’uccisione del padre, il generale Aung San, assassinato quando lei aveva due anni nel 1947, la prima parte della sua vita s’è svolta in esilio. Prima in India, poi in Gran Bretagna. Ha studiato a Oxford, prendendo una laurea prestigiosa, e lì s’è sposata con un professore specialista di Tibet, Michael Aris, morto senza che potesse ricevere l’ultimo saluto dalla moglie nel 1999 per un cancro. Da Aris ha avuto due figli.
La decisione di tornare in Birmania è solo del 1988. Volata al capezzale della madre, si ritrovò nel pieno di una rivolta contro la giunta militare repressa nel sangue. “Non potevo, come figlia di mio padre, restare indifferente a tutto quello che stava accadendo”, ha detto durante il suo primo storico discorso alla pagoda Shwedagon, nel 1988.