Mentre in un’intervista all’ABC Joe Biden lancia un guanto di sfida a Vladimir Putin rispondendo ad un’insidiosa quanto prestabilita domanda del giornalista, tutto il mondo si interroga se ce n’era bisogno e quale sia il fine di “Silent Joe”. E soprattutto ci si chiede quanta distanza ci sia fra le parole del neopresidente Usa e la “tolleranza” con la quale Obama ha sempre evitato uno scontro diplomatico aperto con i russi, lasciando campo libero su questioni anche molto scottanti come il terreno dell’aspro conflitto siriano o l’Iran.
A seguire, anche il vertice in Alaska tra Cina e Stati Uniti, che inaugurava la politica estera dell’amministrazione, ha avuto un avvio burrascoso tra reciproche accuse. Da un lato, gli USA hanno sollevato nuovamente la questione dei diritti umani sui due scottanti capitoli di Taiwan e di Hong Kong. Dall’altro, i cinesi hanno mantenuto fermo il punto, dimostrando che i piani di sviluppo su 5G e temi ambientali sono concreti e che la partita all’egemonia geopolitica è aperta. Non è infatti un segreto che da mesi i cinesi abbiano implementato gli acquisti di petrolio da Iran e Venezuela nonostante gli embarghi statunitensi. L’obiettivo è ostacolare l’azione di Biden e rendere i due Paesi meno assoggettabili alle pressioni americane, per ridefinire ruoli e accordi in due aree come quella latinoamericana e mediorientale che così restano sempre incandescenti. E la loro instabilità continua nel primo caso a favorire flussi migratori che si riversano ai confini con gli Usa e nell’altro a rendere impossibile un piano di ripresa politico e civile in Libano e in Siria.
Il quadro geopolitico resta complesso: dopo questa riunione in Alaska la guerra fredda assume toni più aspri e il braccio di ferro tra Biden e Xi stride con il documento di strategia sulla Difesa Nazionale, in cui la nuova Amministrazione ha delineato un ruolo primario della diplomazia e l’apparente abbandono di un impeto della forza militare, che viene relegata a ultima risorsa. Ed anzi è stato annunciato uno sbilanciamento verso un maggiore “impegno civile” delle forze armate, che, data l’emergenza vaccinale, è certamente molto coerente, ma potrebbe creare qualche disfunzione tra operativi e la necessaria copertura e modalità di gestione delle missioni all’estero. Anche perché la politica militare cinese, esattamente come quella russa, va ben oltre i propri confini e si estende a zone di ingerenza e Africa e Latino America.
PERCHÉ ANCHE A CASA NON C’È PACE PER GLI ASIATICI AMERICANI
E se non bastasse l’emergenza interna legata all’estremismo visto all’opera nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, ora la preoccupazione maggiore si rivolge ai crimini d’odio contro gli asiatici americani, soprattutto in California e in Georgia, giunti al culmine con la strage di Atlanta di pochi giorni fa, in cui sono state uccise otto donne. Sono oltre 3.800 i casi segnalati di razzismo contro le comunità asiatiche nel Paese, complice non solo una stigmatizzazione dell’origine del contagio da parte della precedente amministrazione, ma anche l’esacerbarsi dei gravi effetti economici della pandemia, che, come in precedenti situazioni belliche, ha alimentato uno scontro civile tra comunità. Soprattutto in aree come la Georgia, dove in questi 50 anni i figli degli immigrati oramai naturalizzati americani hanno cavalcato con successo il sogno americano nelle professioni come nella politica. Ma soprattutto in una piena inclusione sociale in quello che è uno degli stati americani più popolosi e multiculturali, con l’aeroporto più trafficato al mondo, quello di Atlanta. Lo Stato che fu al centro dello stillicidio del ballottaggio dei voti delle ultime elezioni, ed anche quello più esposto ai cambiamenti climatici e quindi sensibili all’impegno del Governo USA agli accordi di Parigi COP26.
La visita di Biden con la vice Kamala Harris ad Atlanta era già prevista, perché segnava anche l’inizio di un tour per verificare gli esiti della campagna vaccinale, ed a causa della strage è diventata l’occasione di un necessario confronto con i rappresentanti della comunità asiatico-americana che ha rinnovato nuovamente la polemica sul decreto per il controllo della vendita di armi. Il provvedimento è bloccato al Congresso, ed è stato di fatto accantonato malgrado figurasse tra le priorità della campagna elettorale di Biden, che aveva fatto promesse chiare su questo aspetto, purtroppo ricorrente nelle stragi di cittadini innocenti negli USA, come nei casi delle scuole più volte ricordati in passato da Biden.
LA PARTITA EUROPEA: UN’AMICHEVOLE SU SOLIDE BASI “NEGOZIALI”
Dove invece Biden dovrebbe camminare sul velluto è la partita europea. Si riapre la stagione delle relazioni con una priorità relativamente alla tassa sulla “digital tax”: lo scorso anno, prima dell’estate, gli americani si erano ritirati dalle trattative e ora, proprio durante la presidenza italiana del G20, avremo l’onere di gestire la ripresa dei lavori su un progetto multilaterale, perlopiù rivolto ai colossi digitali USA, almeno nei piani dell’OCSE. Questo e altri temi dovrebbero entrare a far parte di una piattaforma comune per una normativa su un settore tecnologico che nei numeri resta di predominio statunitense: secondo Bank of America, nel settore tech il valore delle aziende Usa supera i 9 trilioni di dollari, che corrisponde alla capitalizzazione di tutti i mercati azionari europei, comprese Svizzera e Gran Bretagna.
Il dibattito europeo sulla digital tax sta assumendo contorni che invece di aiutare a definire un piano stabile, condiviso e di lungo termine, teso ad evitare controversie internazionali, rischiano di creare ulteriori complessità per le aziende Ue. Non si può affrontare la sfida della digitalizzazione lanciandosi in contenziosi fiscali: ci si dovrebbe concentrare sulla diffusione dell’accesso al digitale, su prodotti e servizi, come abbiamo imparato dalla pandemia. Proprio perché le società tecnologiche quotate in Europa sono una piccola percentuale rispetto alla realtà americana, ci si dovrebbe concentrare maggiormente su tenuta, sicurezza e stabilità di un’infrastruttura digitale europea, trovando un dialogo con gli USA che non diventi un boomerang per le aziende europee con un eccesso di fiscalizzazione.
Anche perché un terreno comune dal quale partire c’è, ed è l’unione di intenti sul cambiamento climatico con gli USA, che rientreranno al tavolo negoziale di COP26 a Glasgow, come ribadito a gennaio da John Kerry in visita ufficiale a Bruxelles, ed è estremamente promettente per vedere passare non solo UE e USA ma tutti i 196 Paesi dai proclami politici al tanto auspicato piano d’azione. Ed anche la via comune al Green New Deal smuoverà investimenti infrastrutturali che vedono nella tecnologia il perno vincente per la realizzazione di soluzioni efficienti: dall’agritech al biotech, e oltre.
Sullo sfondo di questa crescente ondata di nervosismo e nuovi capitoli di una guerra sempre più fredda tra gli Usa, Cina e Russia, ciò che è certo è che le imprese USA iniziano ad avere problemi, con un commercio internazionale condizionato da carenze nelle strutture logistiche e dei trasporti, e costi dei container alle stelle imposti praticamente dalla Cina. Inoltre, anche negli Usa ci son problemi produttivi, in una situazione pandemica lungi dal rientro alla normalità nel breve, aldilà delle ottime prospettive già insite nel surriscaldamento dell’inflazione e dei rendimenti dei Treasuries a più lunga scadenza.
Comunque, le stime sulla ripresa del Paese, grazie sia a una strategia vincente sulla campagna vaccinale che al massiccio pacchetto di stimolo di 1,9 trilioni di dollari appena varato, parlano di un +7% nella seconda parte dell’anno, che potrebbe anche superare la Cina, malgrado questa sia partita con un vantaggio temporale non da poco.
Ha fatto bene quindi Powell a calmare gli animi, considerando transitoria la fiammata inflattiva (dopo il voto dei membri del Board della Fed che a grande maggioranza vedono tassi fermi sino al 2023), mentre per la politica estera di Biden il fuoco arde e rischia di diventare persistente, alimentando il nervosismo degli investitori oltre che quello di Putin.