Se si vuol parlare di autori prolifici, non può mancare l’accenno a uno scrittore e giornalista, sicuramente più giornalista che scrittore, dalla vena talmente fertile da averci lasciato un centinaio di libri e qualche migliaia di articoli. Un nome oggi quasi completamente sconosciuto a tutti, tranne a quelli che hanno fatto del giornalismo la loro professione, o missione, e che sono molto in là con gli anni, e a qualche inconsapevole abitante di qualche strada nel veronese: Arnaldo Fraccaroli. E Arnaldo Fraccaroli è il protagonista del 30°ed ultimo episodio della serie degli autori best seller italiani.
Un grande giornalista, ma…
Egli è stato un giornalista estremamente capace, uno di quelli la cui penna scriveva da sé, bastava dirgli l’argomento e le parole venivano giù una dietro l’altra, con la sorprendente capacità di rappresentare al meglio quanto richiesto e, caso mai, di illuminare con una frase, un nome o un aggettivo il personaggio, l’ambiente, lo scenario.
È questo che fa grande un giornalista, e se egli sa trasporre questa sua dote anche nel romanzo, ne fa uno scrittore di vaglia. Fraccaroli questa dote, almeno nel giornalismo, la ebbe come pochi, non a caso Indro Montanelli lo stimava enormemente e lo considerava il suo maestro; e molti altri giornalisti di quei tempi, da Barzini a Ojetti a Vergani, non esitavano ad annoverarlo tra i più grandi della prima metà del Novecento.
… un mediocre scrittore
Diverso il discorso per quanto riguarda la narrativa, dove non raggiunse i livelli ottimali del giornalismo, anzi, ne rimase ben lontano. La sua prosa, infatti, pur attraente, brillante e di sicura presa sui lettori, tanto da aver sfornato alcuni fra i maggiori best seller del periodo, non riusciva ad intaccare la realtà più di tanto, a pervaderla e rappresentarla così efficacemente come avveniva nei suoi articoli. Gli mancava quella profondità che aveva Simenon.
Si avvertiva che a mordere la materia ci voleva ancora un po’, che occorreva un ultimo guizzo. Ma questo avrebbe richiesto un tempo e un’attenzione maggiore, una concentrazione più profonda, e lui che aveva da comporre contemporaneamente l’articolo per il giornale, o un qualunque altro scritto, lasciava perdere e si accontentava di quello che aveva buttato giù, tanto per le masse andava più che bene.
Anzi, avrebbe corso il rischio di perderli, quei lettori che fanno i grandi numeri. E pazienza se per la gloria della letteratura tutto ciò non bastava. Probabilmente neanche ci pensava, consapevole forse che la corda del grande romanziere non l’aveva e anche se l’avesse voluta far emergere e poi sviluppare, gli sarebbe costata tempo e fatica, sottraendoli al giornalismo, sua prima passione.
E pertanto avrebbe corso il rischio di mettere a repentaglio quel ruolo di giornalista “principe” e di scrittore di successo commerciale che si era conquistato, con tutti i vantaggi che questo gli procurava. E per che cosa poi? Per comparire in qualche storia letteraria del futuro, ammesso che poi avvenisse? No! Dentro di sé riteneva che non ne valesse affatto la pena.
Una produzione sterminata
Del resto a uno che era in grado di passare da un argomento tragico e funereo, come è un fronte di guerra, dove era presente fisicamente e ne raccontava le vicende drammatiche con dovizia di particolari, a una narrazione brillante, come è quella di una commedia o di un romanzo, che lui elaborava nei medesimi giorni e nelle medesime località, non potevi chiedere di più.
Se vuoi scrivere 34 romanzi, 32 commedie, 16 reportage di viaggi da tutte le parti del mondo, una quindicina di biografie musicali, fra le quali ben 4 dedicate a Puccini, suo grandissimo amico, 10 volumi di corrispondenze dai fronti di guerra e in aggiunta migliaia di articoli, come fai se non segui quei ritmi vertiginosi di scrittura, che mal si addicono alla composta profondità cui si sarebbe dovuto adattare per entrare a pieno titolo anche nell’empireo della “letteratura”?
A quell’ultimo miglio verso la grandezza letteraria in un modo o nell’altro rinunciò. E probabilmente nelle sue condizioni avremmo fatto tutti così. Del resto guadagnava cifre altissime sia in diritti d’autore per i libri che andavano a ruba, che per i testi teatrali, senza contare lo stipendio di inviato del “Corriere della sera”, dove rimase per 45 anni, e le retribuzioni aggiuntive per collaborazioni varie nella stessa testata o al di fuori, come soggetti e sceneggiature per il cinema e così via. Non gli bastava tutto ciò?
E a proposito di cinema come non ricordare che fu proprio il titolo di una sua commedia del 1914 a illuminare la mente di Fellini, che lo riprese mezzo secolo dopo nel più importante film che fece e in assoluto uno dei principali di tutta la cinematografia italiana e mondiale: La dolce vita.
La vita
Arnaldo Fraccaroli nasce a Villa Bartolomea, in provincia di Verona, nel 1882, in una famiglia povera che non può farlo studiare. Poco più che ragazzo lavora come fattorino in una tipografia del paese.
Comincia, anche per contiguità di ambiente di lavoro, a scrivere qualche pezzo per un giornale umoristico della città, poi per altre testate cittadine di Padova e di Venezia, specie di argomento teatrale.
È questo infatti l’ambiente cui si sente portato, tanto che a 16 anni gli si attribuisce già un dramma in due atti e l’anno dopo una commedia, genere che si attaglia meglio alla sua personalità, più consona alle rappresentazioni brillanti e giocose, che a quelle tragiche.
Negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale alcune sue opere vengono rappresentate nei teatri del Nord Italia, facendo sempre il tutto esaurito.
Il suo tono leggero e scanzonato piace al pubblico, lo diverte, lo rasserena e anche se alla fine manca quello spessore che i critici subito colgono, a partire da Renato Simoni, suo grande amico ed estimatore, ma non ignaro dei suoi limiti, il botteghino non solo non ne risente, ma addirittura ne prospera.
L’ingresso nel giornalismo
Ed è proprio Renato Simoni, giornalista, critico, commediografo, sceneggiatore, librettista, fra l’altro futuro coautore del libretto della Turandot, a presentarlo al direttore del “Corriere della sera”, dove lui collabora già dal 1903, Luigi Albertini. Questi per l’appunto stava cercando qualche giovane da valorizzare e con il quale svecchiare un po’ il suo quotidiano e battere la concorrenza.
E siccome quanto a giornalismo niente da ridire su Fraccaroli, quella sua capacità di elaborare in tempi rapidi l’argomento richiesto lo fa subito apprezzare dall’Albertini e ad appena 27 anni entra in pianta stabile nel maggior quotidiano nazionale. Non è certo poco per un giovane che non ha studiato e che ha rimediato da autodidatta alla carenza di una formazione scolastica e universitaria.
Diventa un “inviato speciale”
Nel quotidiano milanese Fraccaroli fa una certa gavetta, come tutti, ma anno dopo anno le sue doti risaltano e il suo prestigio all’interno del quotidiano sale. Dà ottima prova di sé già durante la guerra di Libia, come inviato speciale, tanto che i suoi articoli vengono subito raccolti in volume e pubblicati da Treves nel 1913, che è allora il maggior editore del paese.
Durante la I guerra mondiale diventa colui che la sa raccontare meglio di tutti, fin dalla primissima fase, prima ancora che l’Italia entri nel conflitto, dato che dal fronte austro-russo in Galizia nel 1914 invia dei pezzi davvero illuminanti, che fanno entrare il lettore in quel cupo scenario, quasi ci assistesse dal vivo.
Lo stesso copione si ripete più avanti, quando si sposta al seguito delle nostre truppe e descrive quasi in presa diretta i principali avvenimenti del conflitto, anche i più amari, come la disfatta di Caporetto. Ma questo suo voler sapere, questo seguire le vicende di persona fino in fondo, fino agli scontri con i nemici non passano inosservati, gli valgono un seguito altissimo di consensi, e gli verrà anche assegnata una medaglia al valore per aver rinunciato alla sua personale sicurezza pur di assistere da vicino ai drammi del conflitto.
Una lunga carriera in ogni parte del mondo
Divenuta una delle firme principi del “Corriere”, Fraccaroli, o il Fraka, come si firma talvolta e come viene amichevolmente chiamato, gira il mondo, e racconta quello che accade di significativo in ogni continente, come tutto stia cambiando a ritmi vertiginosi.
È tra i primi a volare su un dirigibile e sugli aeroplani, a intervistare i più importanti personaggi dell’epoca, a presenziare agli eventi più clamorosi, rendendone fedele testimonianza ai lettori. E anche quando l’evento non è così eclatante, ecco che lui riesce sempre a trovare quel particolare che lo fa sembrare davvero importante, degno di essere raccontato e letto con piacere dal pubblico.
Il primo a raccontarci la nuova America
Molto apprezzate sono le corrispondenze dall’America, del quale continente è il primo a rappresentarne il nuovo stile di vita. Già negli anni Venti è stato a Hollywood e descrive in forma spumeggiante e briosa come un cocktail frizzante il nuovo tipo di ragazza, quell’american girl che sarebbe poi divenuto il modello di riferimento per tutto il mondo occidentale. E sotto sotto anche orientale, con quello che tale aggettivo evoca e significa.
E basta il titolo di un suo romanzo a capirlo: Il paradiso delle fanciulle, ovvero american girls, uscito nel 1929, con un successo di pubblico da rasentare le 100.000 copie in 15 anni di vendite.
Come scrittore? Un po’ meno…
Il passaggio da giornalista a scrittore non è però semplice. È sì vero che pubblica con estrema facilità romanzi e novelle che primeggiano a lungo nelle vetrine dei librai. E il primo titolo in questo senso è Coriolano vuol essere felice, un romanzo uscito nel 1932 che a un anno dall’uscita aveva già raggiunto le 100.000 copie e nei 10 anni successivi ben 250.000, tali da collocarsi fra i maggiori best seller del periodo, alla pari dei libri di Da Verona e di Pitigrilli che in quegli anni si spartivano, insieme a pochissimi altri, i favori del grande pubblico.
Ma questo grande best seller, diciamolo, piaceva sì alle masse, ma valeva poco. E alla prova dei fatti non avrebbe retto a nessun confronto con quello che usciva in quegli stessi anni di infinitamente migliore, come, ad esempio Ilia e Alberto di Angelo Gatti, uscito a pochi mesi di distanza. Un abisso fra i due romanzi, anche se quello di Fraccaroli vendette molto di più.
Coriolano vuol essere felice
Vi si reca, e il facoltoso amico lo introduce nel club più esclusivo della capitale, frequentato solo dai membri dell’alta aristocrazia e dai personaggi più in vista. Qui una nobile signorina si innamora pazzamente di lui. È un tripudio.
A Coriolano pare in effetti di aver raggiunto quella felicità che cercava: ha successo con le donne, vive da gran signore e non gli manca nulla di nulla. Cosa desiderare di più? Ma insospettito da alcune circostanze indaga più a fondo sulla natura di questo club, e scopre che esso è una casa di tolleranza, e la contessina che si è invaghita di lui solo una prostituta, che con i clienti assume il ruolo di casta aristocratica innamoratasi follemente. E così…, per aver voluto conoscere la verità, Coriolano perde la felicità.
Un libro da far ridere sotto tutti i punti di vista, ma che allora colpì nel segno e raggiunse quella tiratura davvero stratosferica, per l’asfittico nostro mercato editoriale. Una vicenda da operetta comica, che avvicina Fraccaroli a quello che in quel periodo scriveva il Pitigrilli, anche lui osannato dai lettori.
Una produzione vasta ma inconsistente
E bastano i titoli a dimostrarlo: 20 novelle matte ma non tanto e Se tu giuochi con l’amore nel 1937, Sette donne intorno al mondo nel 1938, Matte anche queste, ma però nel 1940, Sempre più matte con pepe e sale nel 1942 e Quest’altre matte ridono e graffiano del 1946 che ottennero in quegli anni funesti e dilaniati dalla guerra, tirature cospicue. Ma sotto non c’era niente!
Proprio per questa sua leggerezza e facilità di scrittura e di inventiva, Fraccaroli, gran frequentatore di giovani e belle donne, lavora anche per il cinema, per il quale compone soggetti e sceneggiature, realizzati poi da registi del calibro di Mario Camerini, Gianni Franciolini e Carmine Gallone.
Il ritiro
Dopo la seconda guerra mondiale torna al suo lavoro di giornalista nel “Corriere”, ma quel mondo che lui aveva saputo rappresentare così bene nei suoi articoli è ormai scomparso e lui avverte di esserne un sopravvissuto.
Nella nuova società il suo modo di scrivere non fa più presa, e allora, data anche la solidità economica che ha raggiunto con il suo lavoro, si mette in disparte, si ritira a vita privata. Dopo alcuni anni, gravemente malato, muore nel 1956, all’età di 74 anni, non prima di aver firmato il soggetto e la sceneggiatura di un nuovo film di Mario Landi, “Siamo tutti milanesi”.
Lasciò gran parte della sua ingente eredità in beneficienza, dimostrando quella generosità di animo che chi lo frequentava aveva conosciuto da sempre, allorché non si era mai tirato indietro quando c’era da aiutare qualcuno.
Sono certamente questi gli atti che fanno grande un personaggio, più di mille best seller!