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Berta: “Il capitalismo italiano è finito in serie B: risalirà?”

Imagoeconomica

Che relazione c’è, se c’è, tra l’evoluzione del capitalismo italiano e le nostre scelte di politica estera? “Ovviamente la relazione c‘è, e c’è sempre stata. Anche se è un aspetto trascurato il più delle volte”. Risponde così Giuseppe Berta, professore in Bocconi di storia dell’economia, attento osservatore dell’evoluzione dell’economia italiana dell’ultimo secolo che ha appena pubblicato un saggio dal taglio e dal titolo molto critico: “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”. E’ sceso, anzi, è tornato in serie B, risponde Berta, ma non è dramma. Purché sapremo essere coscienti della nuova collocazione. Anche nel contesto degli equilibri internazionali.

“Il nostro sviluppo dal ’45 in poi – afferma Berta – è il frutto del resto dell’allineamento con la strategia americana. E’ sotto l’ombrello del Patto Atlantico che il grande capitale italiano raccoglie i mezzi necessari per il suo sviluppo, come non era mai accaduto, neanche nell’era giolittiana. E’ in questa cornice che prevale la scelta della grande industria a scapito della visione di Luigi Einaudi per il quale, come scrive, “quello italiano è un popolo di contadini proprietari o di aspiranti alla proprietà della terra, popolo di artigiani con grandi ma non dominanti chiazze di proletariato nelle città”. Un giudizio che attraversa il dibattito alla Camera nel dopoguerra: solo Vittorio Valletta per la Fiat ed Oscar Sinigaglia si schierano per un futuro della grande industria.

“Sinigaglia è un frutto della grande stagione della nascita dell’Iri, concepita da Alberto Beneduce, grande nemico di Einaudi, per conto di Mussolini. I capitali americani offriranno all’Italia post fascista l’occasione per il grande balzo dell’industria. Una stagione felice…”. Certo. Ma probabilmente irripetibile dopo la caduta del Muro di Berlino che fa decadere il valore strategico dell’Italia già avamposto della Guerra Fredda”. La conseguenza? ”L’Italia gioca la carta europea, pur consapevole del gap che ci separa dalla cosiddetta Europa core. L’uomo chiave di questa trasformazione è Guido Carli che tratta le modalità del nostro ingresso che prevede cambiamenti sostanziali. Volge al tramonto la formula dell’economia mista, le nostre istituzioni devono fronteggiare strutture più solide. Non viene posta la necessaria enfasi sul debito pubblico che comincia a salire in quegli anni”.

Veniamo al presente. “Dal Novanta in poi l’Italia tenta di agganciare il treno della serie A. Un obiettivo che, fino allo scoppio della crisi del 2008/09 sembra possibile, Poi l’impresa diventa sempre più difficile. Oggi si fa strada la sensazione che siamo finiti in un vicolo cieco: conciliare la ripresa con i parametri richiesti dalla Germania per restare nel carro europeo è sempre più difficile. Agli occhi di molti troppo difficili”. Di qui i malumori dell’opinione pubblica e la svolta di Matteo Renzi pro Washington. “C’è del metodo nelle ultime mosse del governo. Ormai si è preso atto che una soluzione europea per Monte Paschi non esiste o comunque non è appoggiata dalla Ue. L’Italia, al solito affamata di capitali, li trova in Cina, Medio Oriente o presso le banche Usa- Sempre meno in Europa”. Si ritorna alla scelta Atlantica? “Con qualche novità: l’opposizione a nuove sanzioni alla Russia, ad esempio, è una manifestazione d’indipendenza nel solco della tradizione di La Pira, il sindaco di Firenze caro al premier”.

Come si riflette questa narrazione sul capitalismo italiano? “Nel libro cerco di spiegare come è cambiata, a nostro svantaggio, la geografia del nuovo capitalismo ad impronta californiana. I vari Google o Apple controllano il software e gestiscono il manufacturing su scala mondiale, alla ricerca delle condizioni migliori. Le strutture piramidali del vecchio capitalismo vanno in crisi. Si disegna un mondo del lavoro atomizzato. Intanto, a mano a mano che ci si allontana dai centri delle imprese tecnologiche si passa dall’high tech al lavoro low cost. E c’è da chiedersi quali chances avranno i sistemi economici dei paesi che, un po’ alla volta, tendono a scivolare dal centro alle periferie della nuova economia-mondo?”. Sembra un quadro disperato. “Non voglio essere un medico pietoso – replica lo storico di Mirafiori e dell’industria che fu –. Quando, come accade oggi, in un Paese come l’Italia il 20 per cento delle aziende realizza l’82% del prodotto interno lordo occorre riflettere sulla missione e la funzione dell’80 per cento che si limita a vegetare, come un esercito di zombie. Andando avanti così, il futuro è davvero difficile”.

Eppure l’Italia ha innegabili punti di forza nelle medie imprese, quelle che Mediobanca registra nella sua analisi del quarto capitalismo e nelle realtà distrettuali, oggetto delle indagini periodiche di Intesa San Paolo. “Ma il capitalismo leggero – obietta Berta – non è l’antidoto alla decadenza economica”. Si tratta di imprese, spiega, che stanno a loro agio in una fascia più bassa rispetto ai grandi giochi globali, quelli della serie A. Sono la nostra forza ma non sono né possono essere la versione italiana di un capitalismo che muove, con rapidità estrema, capitali immensi. E’ un piccolo cosmo che fatica meno (ma comunque fatica…) a tenere il passo in termini di produttività e profitti. Nell’ultimo decennio, poi, il numero delle medie imprese è sceso sotto le 4.000 unità (1.330 in meno del picco del 2007, prima della crisi), ma la quota delle aziende manifatturiere controllate dell’estero è raddoppiata, dal 14,3 al 26,7 per cento. Non è un fenomeno negativo.

“Le multinazionali – commenta Berta- sono agenti attive del cambiamento: meglio confluire in realtà più grandi che scomparire”. Comunque si rigiri la questione, insomma, emerge la necessità di recuperare un nuovo modello per l’Italia prendendo atto che quello della grande impresa, così caro ai Big di una stagione tutto sommato breve ed ormai esaurita (da Guido Carli, all’Avvocato Agnelli ed oltre) ha ormai ceduto il passo all’altra Italia, già gradita a Luigi Einaudi, che tanto amava quell’Italia “fatta di terra, contadini e sudore” che oggi si ripresenta nelle vesti di un’economia intermedia e “che ha bisogno – conclude Berta – di cornici ed infrastrutture da costruire da zero, a partire dalle piattaforme digitali”. L’Italia di Adriano Olivetti e di Giorgio Fuà capace di combinare modernità e territorio, diffidente verso il capitale che punta sul controllo di giornali e banche, con la costante tentazione di aggirare regole e regolatori deboli.

Potrebbe servire alla bisogna il piano 4.0 del ministro “purché non si limiti ai super ammortamenti”. Più ancora, però, è urgente che l’economia ritrovi strutture capaci di rappresentarla. “I sindacati dovrebbero abbandonare gli schemi attuali per ascoltare una domanda che sale, inascoltati, dal mondo del lavoro”. E la Confindustria? “Boccia è stato eletto da gruppi di potere interni e dai gruppi pubblici. Difficile che possa rappresentare le voci più vivaci dell’imprenditoria”, quelle che potrebbe dare forza all’Italia di Einaudi 2.0. Magari più piccola, meno ambiziosa (o meno velleitaria) del recente passato ma proprio per questo capace di riprendere un cammino interrotto ancor prima della grande crisi.

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