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Berta (Bocconi): “Leonardo, Fca e non solo: capitalismo italiano, ripensa te stesso”

Imagoeconomica

Cara Italia, non t‘illudere, ammonisce Giuseppe Berta, storico  dell’economia, che da buon piemontese non  disdegna, quando è il caso, di indossare i panni del Bastian Contrario. “I segnali di lungo periodo in arrivo dalle imprese non lasciano ben sperare. Per carità, il quadro è in chiaroscuro. Per nostra fortuna non mancano né le imprese di successo, né iniziative positive, tra cui spicca il piano Industria 4.0. Ma il nostro contributo all’economia globale si esaurisce a mano a mano che si sale dai piani bassi ai centri decisori, dove si decidono i piani di sviluppo del capitalismo.  La nostra presenza si è rimpicciolita, relegandoci sempre più ai margini delle attività che contano e che creano valore aggiunto”.  

Si potrebbe obiettare che non si tratta di una grande novità. E poi, i dati dimostrano che il sistema italiano è in piena ripresa. O no?

“I numeri, per ora, restano indietro rispetto ai livelli della manifattura del 2007/08. Ma, al di là del recupero congiunturale resta la sensazione di un certo vuoto progettuale, di una mancanza di futuro. Da questo punto di vista mi sembra che le cose vadano sempre peggio. Al contrario, è vitale che l’Italia economica ripensi se stessa per ritrovare il suo posto nel mondo. Anzi, credo che il tema andrebbe affrontato con urgenza e nelle sedi che contano ”. 

“L’ultimo campanello d’allarme – continua il docente della Bocconi – è arrivato con il piano industriale di Leonardo,l’ex Finmeccanica. Ho grande stima di Alessandro Profumo, che tra l’altro ha più volte parlato ai nostri studenti dimostrando di saper suscitare l’attenzione e l’entusiasmo dei giovani. Ma proprio per questo mi hanno colpito le critiche degli analisti internazionali al business plan. Non è tanto questione di target a breve  o di difficoltà  collegate ai vincoli di bilancio dell’azionista di riferimento.   Quel che emerso ed è al fondo delle critiche sollevate dagli analisti internazionali è l’assenza di una visione strategica che spieghi dove voglia arrivare la più importante holding finanziaria italiana a fine piano, in vista degli anni Venti del secolo. E così si ha la sensazione di assistere alla prosecuzione di una transizione infinita, senza un obiettivo ambizioso, che pure dovrebbe essere alla portata di un’azienda leader. Insomma, viene fuori una strategia difensiva mentre gli altri corrono. Ma così si rischia di finir relegati in un ruolo subalterno: un conto è cooperare con i partner, altro è ridursi a fare il gregario”. 

Sembra un giudizio ingeneroso.

“E’ un esempio di un  problema comune a quello che resta della grande impresa italiana. Leonardo mi preoccupa in modo particolare per il valore tecnologico e le ricadute che può avere una grande azienda per la ricerca e l’innovazione dell’intero sistema. Ma anche perché rappresenta un esempio dello stimolo che lo Stato può avere per l’economia di un Paese di medie dimensioni come il nostro. Soprattutto perché da qualche anno, diciamo dalla fine della Guerra Fredda, ha smarrito i suoi punti di riferimento. L’Europa, lungi dal presentarsi come un volano dello sviluppo, ci appare spesso come una matrigna severa, più che altro ansiosa di non farsi coinvolgere dai nostri problemi. E’ esemplare il recente documento dei 14 economisti, 7 tedeschi, 7 francesi, sulle prospettive dell’Europa. Dal testo emerge soprattutto una preoccupazione: creare un cordone sanitario che sterilizzi il rischio Italia. Altro che sviluppo”.  

Anche i rapporti con gli Usa sono cambiati.

“Siamo orfani del Muro, ma anche dell’incapacità di avere la forza di sostenere un ruolo efficace nei confronti dell’area mediterranea. In questo contesto gli Usa hanno rappresentato uno sbocco importante per il made in Italy. Ma fino a quando può durare? Su fronte valutario è trasparente la volontà dell’America di Trump  a metter sotto pressione la leva del cambio con l’obiettivo di contrastare la Germania. L’Italia rischia di essere il vaso di coccio della situazione. Buona parte del nostro export riguarda beni di consumo che possono essere messi fuori mercato dall’aumento dei prezzi; un americano rinuncerà prima ad un bicchiere di Brunello che ad acquistare una Bmw”.   

Anche se le auto tedesche non godono certo di buona immagine in Usa dopo gli ultimi sviluppi del dieselgate. 

“In realtà i profitti dei gruppi tedeschi sono eccellenti, nonostante l’impegno sul fronte dell’elettrico o delle altre innovazioni. Ma le difficoltà del diesel illustrano bene le difficoltà dell’industria europea di fronte al cambiamento. Il vero limite rispetto alla flessibilità americana. Ma non trascuriamo lo sforzo enorme per l’auto del futuro, sia dei tedeschi che di  americani e giapponesi, di fronte al quale si ridimensionano le performance del gruppo Agnelli. In Italia gli investimenti di  Fiat Chrysler segnano il passo, la presenza dell’elettrico si riduce al ruolo di subfornitore di Waymo da parte di Chrysler”. 

Eppure i mercati premiano la ricetta Marchionne. 

“E hanno ragione perché lui centrerà tutti gli obiettivi che ha promesso anche perché, non dimentichiamolo, all’azzeramento dei debiti è legato il bonus del Ceo che si accinge a cedere le deleghe al successore. Poi vedremo. Marchionne ha dimostrato in questi anni almeno due virtù: è un grande negoziatore, e lo ha dimostrato in mille occasioni. Ma anche un grande aggregatore. Purtroppo, Angela Merkel disse di no al’unione tra Fiat-Chrysler e Opel che avrebbe garantito il salto di qualità. E lo stesso è accaduto, finora, con Gm. Perciò il capolavoro di Marchionne rischia di restare incompiuto. E  non è ben chiaro cosa avverrà dopo di lui. Sorprende l’idea che il successore debba eseguire il piano industriale che gli verrà lasciato dall’attuale amministratore”. 

Non esiste solo la grande industria, però. 

“Per nostra fortuna esiste una base solida di aziende dai 250 milioni di fatturato fino ai 2-3 miliardi che continuano a dimostrare di saper reggere la concorrenza e di far squadra. Un esempio eccellente è l’Ima di Bologna. Non solo l’azienda è competitiva, ma ha saputo creare un sistema a vantaggio dei suoi fornitori e del territorio di riferimento, ragionando da grande impresa. In un altro contesto, se la cava  bene Prima Industrie, tra i leader mondiali dei laser, piuttosto che gli industriali della chimica e del pharma. Ma c’è una parabola comune a queste eccellenze: non riescono ad andare oltre un certo limite organizzativo. Di fronte al salto, vuoi di dimensioni che di area del business, il sistema segna il passo. Basti l’esempio del lusso: abbiamo ottime aziende, ma non abbiamo mai creato un network di livello mondiale come Lvmh o Kering2. 

O l’alimentare? 

“Un esempio di crescita internazionale intelligente è senz’altro quello di Lavazza. Ma siamo attorno ai due miliardi. Ferrero ha fatto il grande passo in termini di dimensione. Ma mi auguro che non si fermi a metà del guado: a questo punto è necessario dotare il gruppo di una dimensione finanziaria adeguata che può essere consentita solo dallo sbarco in Borsa. Sarebbe questo il segnale di un vero cambio di rotta”.  

Un trend che, per la verità, vede già coinvolte decine di imprese, piccole e medie, che si stano affacciando sui recinti virtuali del mercato azionario. Ma, almeno per ora, non si vedono fusioni od integrazioni per dar vita ad imprese più grandi, quelle che possono segnare il cambio di passo del sistema. E c’è il rischio che un qualche sassolino nell’ingranaggio della crescita (l’aumento dei tassi, la pressione del cambio e le minacce protezionistiche in arrivo dagli Usa) possano congelare il processo, ancora molto timido. E così, dietro le statistiche  che segnalano la ripresa dell’industria sotto la spinta della domanda internazionale, continua ad aleggiare un senso di precarietà, la sgradevole sensazione di un futuro incerto che può far naufragare una navicella, l’industria italiana non ha alle spalle, ormeggi solidi in cui rifugiarsi in caso di tempesta.

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