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Bersani, se vinci le elezioni e vai a Palazzo Chigi, dai il Tesoro a Monti

Con la presentazione nei giorni scorsi della Carta d’intenti per un “Patto dei democratici e dei progressisti” il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha praticamente avviato la lunga campagna elettorale con la quale spera di portare alla vittoria il suo partito e la coalizione di centro-sinistra e di regalare a se stesso, primarie permettendo, la poltrona di Palazzo Chigi. L’alleanza con Vendola, l’allontanamento da Di Pietro, l’archiviazione del patto di Vasto e le apertura all’Udc di Casini (anche con l’occhio alla successione al Quirinale) delineano fin da ora il perimetro del centro-sinistra con il quale Bersani spera di aprire un nuovo ciclo politico.

Aspirazione legittima anche se di non facile realizzazione quella di Bersani. Oggi il Pd sente profumo di vittoria, sorride di fronte ai sondaggi che segnalano la caduta di consensi di Berlusconi, della Lega e delle destre, capisce che deve tagliare in fretta la strada a Grillo (“Siamo pronti a ogni evenienza”) e pensa che il consolidamento delle alleanze a sinistra e al centro gonfierà le sue vele. Grosso modo, le previsioni elettorali su cui il Pd basa oggi i suoi ragionamenti sono queste: il 27% dei consensi al Pd, dal 4 al 6% a Sel, il 10% di premio elettorale se il Pd risulterà il primo partito e poi via libera all’accordo con l’Udc di Casini.  

Il problema di Bersani è oggi quello di non dissipare il vantaggio elettorale e di non farsi soffiare la possibile vittoria alle urne da una riforma della legge elettorale che cambi le carte in tavola. La beffa del Porcellum del 2006 scotta ancora ed è per questo che il Pd gioca in difesa arrivando a dare l’impressione che oggi cambiare il Porcellum non sia più la sua prima preoccupazione ma che la priorità assoluta è quella di evitare una riforma sbilanciata che rischi di pregiudicare un successo a portata di mano.

Ma, al di là della riforma elettorale, il punto chiave che nemmeno la Carta d’intenti può esorcizzare è un altro: come si colloca realmente il Pd nella guerra dell’euro e fino a che punto ha la percezione che l’Italia e l’Europa restano in una zona di alto rischio nella quale la sostenibilità del nostro debito pubblico e la tenuta della moneta unica possono sfuggire di mano con un battito d’ali? E, soprattutto, che farà il Pd e che farà un ipotetico governo di centro-sinistra se nelle prossime settimane l’Italia sarà costreatta a subire il commissariamento politico ed economico per l’inevitabile richiesta di aiuti antispread all’Europa? 

La Carta del Pd si apre in modo rassicurante sostenendo che “l’Italia ce la farà e ce la faranno gli italiani”. E’ naturalmente l’augurio di tutti ma l’esito della crisi italiana ed europea non è scontato e solleva un interrogativo semplice ma incalzante: se i tempi ci obbligano a vivere una crisi di portata eccezionale e  a subire il commissariamento, le proposte di governo delle forze politiche devono replicare  le litanie un po’ imbellettate del passato o devono essere all’altezza del momento e avere il coraggio della discontinuità? Al di là dei buoni propositi della Carta e al netto di alcuni suoi aspetti parecchio discutibili o semplicemente illusori, il punto politico cruciale è sapere se la stagione di Monti – della sua cura da cavallo e delle sue riforme – è stata una dolorosa parentesi, sostenuta lealmente ma masticata molto a fatica e che dunque va archiviata al più presto, o è una base di partenza che non solo non va smarrita ma va proseguita nella futura legislatura?  

Lasciamo per ora da parte il destino personale dell’attuale premier e la sua intenzione di non candidarsi alla guida di governi futuri, la domanda a cui tutte le forze politiche ma soprattutto un partito come il Pd che sfoggia con orgoglio il suo europeismo a dispetto delle suggestioni anti-euro di Berlusconi, della Lega e di Grillo dovrebbe rispondere è: per l’Italia i compiti a casa (che vogliono dire risanamento, riforme e sviluppo) finiscono con Monti o dovranno continuare? Diciamo la verità: il Pd ha finora sostenuto con lealtà il governo Monti, anche a costo di scontentare la Cgil, Vendola, il populismo e il qualunquismo di sinistra. Però ha sempre dato e dà l’impressione di farlo a denti stretti, senza convinzione e per l’impossibilità di mettere in campo subito altre alternative. L’alleanza con Vendola, anche se bilanciata dalle aperture a Casini – senza i cui voti sarà difficile conquistare Palazzo Chigi – accentua i pericoli di un’analisi e di una proposta politica che edulcori i rischi tuttora molto forti di crisi dell’euro e di naufragio italiano e che immagini vie d’uscita improponibili.

Quando i tassi d’interesse che il Tesoro italiano è costretto a pagare sui Btp decennali tornano preoccupantemente vicini alla soglia psicologica del 7% è inutile fare gli struzzi e pensare di risolvere ogni problema con una imposta patrimoniale (che può essere accettabile se azzecca i tempi e i modi) ma bisogna avere ben chiara la priorità della sostenibilità del debito pubblico in una logica di sviluppo.Vincere le elezioni non vuol dire saper governare, come le disastrose esperienze di Berlusconi ma anche l’ultimo Prodi ci ricordano. Si può trionfare alle urne e assistere impotenti al naufragio del governo per la sua palese inadeguatezza di fronte alle inquietudini dei mercati, che non hanno affatto sempre ragione ma contro i quali o senza i quali non si può governare, con buona pace di Angelino Alfano e di chi la pensa come lui.  

Ecco perché, prima e dopo le elezioni, c’è un problema a cui Bersani, il Pd e tutto il centro-sinistra non potranno sfuggire ed è quello di fare apertamente i conti con Monti e con il montismo. Sul destino personale del premier attuale torneremo dopo, ma fare i conti con il montismo non è un esercizio diplomatico o retorico. Vuol dire questo: che i compiti a casa non sono finiti specialmente se verremo commissariati, che gli interessi generali vengono prima di quelli di parte, che il risanamento e lo sviluppo devono essere la bussola di ogni politica economica, che ogni decisione di governo deve tener conto del mood dei mercati e dell’Europa e che, per smontare una Paese fuori mercato come il nostro e preparare il suo rilancio, la discontinuità non è un vezzo ma un obbligo.

Su un punto non possono esserci equivoci: il lavoro sporco per rimetterci al passo con l’Europa e tagliare l’erba sotto i piedi al blocco conservatore di destra e di sinistra che da 10 anni impedisce al Paese di crescere non è finito con il governo Monti ma è appena cominciato. Questo Bersani lo sa, ma deve ricordarselo. Ma Vendola se ne rende conto? E la Cgil? Sì l’Italia ce la può fare, come garantisce la Carta del Pd, ma solo se ha ben chiari questi punti e se si comporta di conseguenza. Altrimenti si può anche vincere un’elezione ma non si governa per molto e le vendette del sistema sono sempre dietro l’angolo. Con il rischio di fare la fine della Grecia o della Spagna.

Siccome le parole contano poco, per dare credibilità internazionale alle sue proposte il Pd e tutto il centrosinistra hanno in realtà di fronte un’occasione d’oro: offrire, in caso di vittoria elettorale, la poltrona di ministro dell’Economia a Mario Monti, come supremo garante di fronte all’Europa del rigore, delle riforme e dello sviluppo. Anche Carlo Azeglio Ciampi, dopo aver fatto il presidente del Consiglio, divenne ministro del Tesoro nei governi Prodi e D’Alema. Sarebbe bello che, da grande civil servant, Monti facesse altrettanto. E per il Paese sarebbe, questo sì, un sospiro di sollievo.

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