Franco Bernabè 1 e Franco Bernabè 2. Forse i più conoscono Franco Bernabè come uno dei maggiori top manager dei grandi gruppi industriali e finanziari italiani essendo stato, nel tempo, il numero uno dell’Eni e poi di Telecom Italia prima di approdare all’attuale presidenza di Nexi. Ma c’è un altro Franco Bernabè che ha lasciato il segno anche nel mondo dell’arte, dove era arrivato nel 2002 quasi come un marziano e dove ha assunto, via via, ruoli di primo piano alla Presidenza della Biennale di Venezia, poi al Mart di Trento e Rovereto e oggi alla Presidenza della Quadriennale di Roma e di Unesco Italia. Ma che rapporto c’è tra i due Bernabè, quello del business e quello dell’arte? E’ una storia che non ha mai raccontato nessuno ma che è interessantissima non solo sotto il profilo personale ma anche per capire che cos’è oggi il mondo dell’arte in Italia e come lo si possa realmente sprovincializzare e valorizzare per come merita. Ed è proprio quanto emerge da questa intervista concessa a FIRST Arte da Franco Bernabè che ripercorre la sua esperienza, davvero singolare, nel mondo dell’arte italiana.
Dottor Bernabè, Lei è stato ed è uno dei maggiori top manager italiani – dalla guida dell’Eni a quella di Telecom Italia e ora alla presidenza di Nexi – ma poi un giorno si è scoperto una passione per l’arte e, nel corso degli anni, è diventato il Presidente della Biennale, del Museo Mart di Rovereto e Trento e ora della Quadriennale di Roma. Ci racconta com’è nato questo imprevedibile amore?
“C’è innanzitutto la passione per l’arte, ma la mia storia nasce da una vicenda del tutto casuale. Ero appena uscito da Telecom alla fine degli anni Novanta quando mi chiamò Giuliano Urbani, allora Ministro dei beni e delle attività culturali del secondo governo Berlusconi, un amico personale dai tempi in cui lo avevo conosciuto al Ceses di Renato Mieli. Fu lui a chiedermi di fare il presidente della Biennale di Venezia per dare un segno di cambiamento. C’era bisogno di un manager che fosse fuori dai giochi e che non fosse parte in causa delle diatribe autoreferenziali tra i soliti pochi soggetti del piccolo mondo antico dell’arte italiana. E così accettai, era il 2002, precisando fin dall’inizio che avrei ascoltato tutti ma avrei fatto di testa mia.
I sei mesi successivi li trascorsi ad incontrare tutti coloro che operavano nel modo dell’arte e che potevano avere un’opinione sul ruolo della Biennale: artisti, direttori di musei, curatori e galleristi. Una vera e propria full immersion. Ho scritto decine di diari, raccogliendo tutte le interviste e le mie note: il mio obiettivo era quello di capire che cosa fosse necessario fare per rilanciare l’arte italiana. Ne venne fuori un quadro approfondito dei problemi del mondo dell’arte di quegli anni. Completata la mia personale indagine mi chiesi che ruolo potesse avere una persona come me estranea alle dinamiche interne di quel mondo. La mia conclusione fu che proprio l’essere estraneo poteva contribuire ad aprirlo ad energie nuove. Mi ero accorto infatti che l’arte contemporanea italiana, riceveva scarsa attenzione dalle istituzioni ed era un monopolio di pochissimi protagonisti che ne dettavano le regole da decenni. Tutto questo provocava l’esodo dall’Italia di un capitale umano e artistico importante. Avevo incontrato numerosi giovani che non trovando spazio se ne erano già andati, magari a Berlino o a New York, impoverendo così un sistema già vecchio.
E allora che cosa fece?
Decisi perciò di fare due scelte precise, sparigliando i giochi delle vecchie parrocchie e nominando come direttore per la sezione arte della Biennale un giovane critico d’arte italiano ma naturalizzato statunitense, Francesco Bonami e per la sezione cinema lo svizzero Moritz de Hadeln. La Biennale d’arte del 2003 provocò molte polemiche tra gli addetti ai lavoro e nel mondo politico, ma il mio obiettivo era proprio quello di creare un evento di rottura e di rinnovare la gestione della Biennale. E al riguardo decisi anche la rotazione degli altri direttori delle varie sezioni della Biennale.
Poi c’erano i problemi finanziari. Fino allora la Biennale per statuto era una “Società di cultura” e questo limitava molte scelte, così proposi di trasformarla in “Fondazione”. Ci voleva un strumento giuridico che garantisse una gestione più trasparente e allo stesso modo capace di sostenere lo sviluppo internazionale. E così avvenne, nel 2004 fu modificato lo statuto della Biennale in Fondazione. La mia idea era quella di fare della Biennale di ciò che c’era di più innovativo nel mondo dell’arte e spero di avere contribuito in quel senso”.
Ma ormai il dado era tratto e la sua avventura nel mondo italiano dell’arte non è finita alla Biennale. Infatti dopo andò al Mart. Com’è nata questa sua seconda sfida?
“Lasciata la Biennale, mi chiamò Lorenzo Dellai, allora presidente della Provincia autonoma di Trento chiedendomi, in nome delle mie origini famigliari, di dare un contributo all’azione di rilancio della provincia. Avevano appena aperto il Mart, Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, sotto la direzione della bravissima Gabriella Belli. Ne divenni presidente dal 2004 al 2014, un lungo periodo dove la collaborazione tra me e Gabriella Belli e successivamente con Cristiana Collu, che oggi dirige la Galleria Nazionale di Roma, ha portato il museo a diventare un vero punto di riferimento dell’arte italiana moderna”.
In pratica, Lei ha applicato al mondo dell’arte i metodi di organizzazione che ha sempre applicato nella sua attività manageriale. Sta qui la chiave del successo?
“Ovviamente si tratta di mondi molto diversi. L’arte non può essere un mondo chiuso e diviso in feudi inviolabili ma deve essere organizzata in chiave moderna e con la consapevolezza di farne un elemento trainante del Sistema italia e delle sue bellezze ed eccellenze”.
Dopo le esperienze della Biennale e del Mart, Lei approda a Roma, con alterne vicende. Ce le racconta?
“Sì, dopo Trento, venne la proposta di contribuire al rilancio del Palaexpo da parte dell’allora sindaco di Roma, Ignazio Marino. Compresi subito che il sistema espositivo dedicato all’arte moderna e contemporanea della città di Roma andava profondamente ripensato. Era necessario rivedere e ridefinire subito la missione, i finanziamenti e il contesto nel quale operava. Ma soprattutto bisognava creare sinergie tra le diverse strutture romane dedicate all’arte moderna e contemporaneo. Presentai al sindaco Marino un progetto di riorganizzazione che conteneva una ristrutturazione articolata, ma non ebbi alcuna risposta, e dopo nove mesi me ne andai”.
Ma non era finita lì e qualche mese dopo l’allora ministro Dario Franceschini la chiamò alla Presidenza della Quadriennale di Roma dove è ancora oggi. Come andò e che cosa conta di fare per la Quadriennale 2020?
“Franceschini allora ministro del Governo Renzi, ad un anno dal varo della Quadriennale 2016 di Roma, mi chiese di assumere l’incarico di presidente della manifestazione. Accettai nonostante i ristrettissimi limiti di tempo per l’organizzazione dell’evento. A consuntivo si può dire che l’edizione del 2016 è stato un successo anche grazie alla partecipazione dei privati che ha consentito di raccogliere 1 milione di euro in aggiunta al contributo dello stato. Anche in questo caso ho cercato di innovare, dando spazio ai giovani talenti. Decisi di procedere all’organizzazione attraverso un bando pubblico per la selezione di 10 curatori per 10 sezioni. I curatori hanno a loro volta selezionato 100 artisti giovani realizzando la più importante rassegna delle tendenze emergenti nell’arte italiana.Il problema del mondo dell’arte italiano è che è dominato da vecchi che non lasciano sufficiente spazio alle giovani generazioni, anche se questo sta cambiando grazie all’impulso di nuove gallerie e di fondazioni private. Sono proprio i giovani che invece dovrebbero essere un volano per il rilancio della creatività di tutto il sistema Italia. Rivitalizzare l’arte italiana, non è solo importante in sè ma è necessario per il rilancio dell’intero Sistema Paese. Mi auguro che lo capisca anche la politica”.
Lei ha detto che il mondo italiano dell’arte è un mondo povero di risorse finanziarie e che i privati devono aprire il portafoglio perché lo Stato non può fare tutto, ma in realtà non si parte da zero perché i precedenti governi hanno lanciato l’Art Bonus: ha dato frutti?
“Sì il bilancio è positivo e bisogna riconoscere, al di fuori delle bandiere politiche, che il ministro Franceschini ha dato davvero un grosso impulso al rinnovamento del mondo dell’arte in Italia, ha fatto scelte importanti, molte delle quali andranno a regime nei prossimi anni”.
Per raccogliere risorse non si potrebbe fare appello anche al mecenatismo diffuso nel mondo che è sedotto dal brand Italia e dal suo enorme patrimonio artistico?
“Sarebbe bello ma è molto difficile attrarre mecenati stranieri perché occorrerebbero misure fiscali ad hoc che non è facile introdurre nel nostro sistema. Ma basterebbe che facessero la loro parte i mecenati italiani, come s’è dimostrato possibile perfino in una città complicata come Roma”.
Non abbiamo ancora parlato di Unesco Italia, di cui Lei è presidente: che cosa può fare per valorizzare il patrimonio artistico italiano?
“E’ un’istituzione molto attiva, che contribuisce alla selezione e alla valorizzazione dei siti dichiarati dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità. Siamo impegnati sia su beni del patrimonio materiale che su beni del patrimonio immateriale, legati alle tradizioni culturali del nostro Paese. Stiamo lavorando per ottenere il riconoscimento dell’Unesco alle colline del Prosecco e alla Cappella degli Scrovegni e ai cicli pittorici del Trecento a Padova. Nel futuro presenteremo la candidatura della Via Appia Antica”.
In conclusione, Lei che bilancio personale fa della sua attività di manager dell’arte?
“Mi ritengo un entusiasta autodidatta di questo mondo, dove ho conosciuto persone di straordinaria cultura e dedizione, e dove ho dato il mio contributo sempre in chiave volontaria. Voglio però pensare di aver dato un impulso e una diversa sensibilità di approccio ad un mondo che ne ha davvero molto bisogno. Perché il mondo dell’arte italiano è povero di attenzioni e di risorse ma, se organizzato in chiave moderna, può essere un motore essenziale della valorizzazione del nostro Paese e delle sue infinite eccellenze”.
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