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Berlinguer, la grande ambizione o la grande illusione? Dove portò la rinuncia del Pci a una Bad Godesberg verso la socialdemocrazia

Il film su Berlinguer celebra il coraggio del compromesso storico ma il rifiuto dell’allora segretario del Pci di imboccare la via socialdemocratica, come proponeva Napolitano, impedì la nascita di un grande partito unitario e socialista dei lavoratori e la costruzione di una vera alternativa alla Dc. Come fu realmente lo scontro tra Berlinguer e Napolitano sulla socialdemocrazia

Berlinguer, la grande ambizione o la grande illusione? Dove portò la rinuncia del Pci a una Bad Godesberg verso la socialdemocrazia

Confesso che guardando il film che il giovane regista Andrea Segre ha dedicato a “Berlinguer. La Grande Ambizione” mi sono commosso, come accade quando capita di rivivere una parte importante della propria vita. Ma debbo anche dire che il nesso che nel film si stabilisce fra “la grande ambizione” di Berlinguer e il “compromesso storicoè fuorviante.

Berlinguer, cos’era realmente il “compromesso storico”

Il “compromesso storico” era una strategia finalizzata al superamento della grave crisi economica che aveva colpito l’intero occidente a seguito della crisi energetica. Non rappresentava un cedimento, come temevano i giovani di allora, né, tantomeno, una rinuncia alle finalità proprie del comunismo. Era, invece, la riproposizione di qualcosa che si era già storicamente realizzato in Italia dal ’43 al ’47 con i governi di unità nazionale e il cui frutto più alto erano state la Repubblica e la Costituzione. Era una parentesi, importante sin che si vuole, ma destinata prima o poi a chiudersi.

La vera “grande ambizione”: una società socialista compiuta

Il vero obbiettivo o, per usare il titolo del film, “La grande ambizione” del Pci non era il compromesso storico, bensì la realizzazione “anche” in Italia di una società “compiutamente” socialista. Cosa significava “compiutamente” socialista? Significava, innanzi tutto, che bisognava andare “oltre” la politica di riforme economiche e sociali e di “welfare State” di stampo Keynesiano cui avevano fatto ricorso con evidente successo le socialdemocrazie scandinave. Quelle riforme avevano sì migliorato le condizioni di vita dei lavoratori ma avevano però fallito l’obbiettivo fondamentale del socialismo che era quello di porre fine, attraverso la pianificazione economica, alle crisi cicliche del capitalismo e garantire cosi uno sviluppo continuo e armonioso dell’intera società.

La critica al capitalismo: da motore a ostacolo dello sviluppo

Il capitalismo, secondo il Pci, non poteva essere riformato. Come avrebbe detto Maurizio Landini, se fosse stato segretario della Cgil all’epoca, “andava rovesciato come un guanto”. Inoltre il capitalismo, come sostenne Berlinguer in un discorso a Genova, “aveva esaurito la sua capacità espansiva“. Da formidabile motore dello sviluppo, elogiato per queste sue capacità anche da Carlo Marx nel suo manifesto comunista, si era trasformato in un ostacolo allo sviluppo. Per superare la crisi erano perciò necessarie politiche e riforme strutturali ben altrimenti coraggiose dei pannicelli caldi di Keynes. “Ben oltre bisogna andare, ben altro si deve fare” era questo il mantra che si sentiva ripetere da parte di autorevoli dirigenti del Pci al punto che Luigi Spaventa, l’illustre economista eletto come indipendente nelle liste del Pci e poi ministro del Bilancio nel governo Ciampi, coniò il termine “benaltristi” proprio per indicare quelli che non avevano nulla da dire sul “qui ed ora”.

L’ostacolo del nome: il peso del comunismo

La vera pietra d’inciampo sulla via del Pci per affermarsi come forza di governo era però il suo essere e dichiararsi comunista. Quando all’indomani del terribile terremoto in Irpinia Berlinguer dichiarò conclusa la stagione del compromesso storico e aprì all’idea dell’alternativa il problema del nome si pose, oggettivamente. La “conventio ad excludendum” non era una invenzione della Dc ma una conseguenza della divisione del mondo in blocchi contrapposti e il Pci era troppo grosso e ingombrante per assumere un ruolo di governo in un Paese di confine come l’Italia senza che questo provocasse un mutamento all’interno dei blocchi. La stessa vicenda Moro e il suo assassinio andrebbero collocati in questo contesto per essere meglio compresi. È vero che il Pci di Berlinguer aveva fatto passi da gigante in relazione alla sua collocazione internazionale sia col riconoscimento della Nato (“Mi sento più sicuro sotto il suo ombrello”, disse Berlinguer a Giampaolo Pansa che nel 1976 lo intervistava per il Corriere) sia nei rapporti con i Paesi socialisti quando, all’indomani del colpo di stato in Polonia da parte del generale Jaruselskj dichiarò l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Ma, a questi indubbi progressi (salutati da Ugo La Malfa come più che sufficienti per favorire l’assunzione di responsabilità di governo del Pci) mancava solo l’esplicito riconoscimento del fatto che il Pci era in tutto e per tutto, tranne che nel nome, un Partito socialdemocratico Europeo. Per certi versi era più moderato della Spd tedesca e del Labour inglese e, rispetto al Psi italiano aveva, forse, più senso dello Stato. Tutte cose giuste queste, ma non sufficienti. Il Pci manteneva, almeno nella coscienza delle masse che lo seguivano e anche in larghi strati dei suoi militanti nonché in vasti settori dell’opinione pubblica italiana e internazionale una sorta di doppiezza che andava risolta.

La mancata svolta verso il socialismo democratico

Il modo migliore per farlo sarebbe stato quello scelto a suo tempo dalla Spd con la svolta di Bad Godesberg: organizzare in una qualche località termale un convegno per prendere formalmente commiato dallo statalismo socialista, dal dogmatismo marxista-leninista e, soprattutto, dall’idea di rovesciare, anziché riformare, il capitalismo. Avremmo potuto farlo riprendendo il filo interrotto del discorso avviato nel 64 da Norberto Bobbio e Giorgio Amendola sulla necessità e, per i due illustri dialoganti, sulla possibilità di dare vita ad un processo di “ricomposizione unitaria delle sparse membra del socialismo italiano”. Sulla creazione cioè di un unico grande partito dei lavoratori italiani. Un partito che, affermava con logica stringente Bobbio, “proprio perché faceva politica e per di più faceva politica di governo in uno Stato retto da una Costituzione liberale (e non in una democrazia popolare) non poteva che fare una politica socialdemocratica”, A questo, concludeva Bobbio, “non c’è alternativa”. E aveva ragione da vendere. Questo passo però Berlinguer non lo volle o non lo seppe fare. Mantenne fermo ed anzi accentuò il suo giudizio critico sulla socialdemocrazia e sulla possibilità del capitalismo di creare ancora sviluppo. Soprattutto accentuò la critica al sistema politico italiano che gli sembrava irrimediabilmente infeudato alla partitocrazia e perciò stesso profondamente corrotto. In quel contesto l’unica cosa che sembrava contare davvero per lui era mantenere l’identità del Partito comunista, sottolinearne la diversità (superiorità?) rispetto agli altri partiti e difenderne l’unità.

In una riunione della Direzione alla quale ebbi modo di partecipare Berlinguer introdusse fra le varie ed eventuali questo tema. Disse, in estrema sintesi: “Ci sono compagni, anche autorevoli, (l’accenno era a Napolitano) che ritengono che lo sbocco naturale del Partito sia quello di dichiararci per quello che già siamo, un partito del socialismo europeo. Il tema esiste ed è serio, dovremo discuterne. Ma, concluse, mi limito ad osservare che se questa fosse la nostra scelta sorgerebbe in un breve lasso di tempo alla nostra sinistra un nuovo Partito Comunista al quale aderirebbero un gran numero dei nostri iscritti e di elettori…”e Ugo Pecchioli, che sedeva al suo fianco, chiosò con un tempismo un po’ sospetto “ed io sarei tra i primi ad iscrivermi”.

Da alternativa di sistema a partito dei diritti civili

Da allora la politica dell’alternativa democratica assunse sempre di più i caratteri di una confusa alternativa di sistema. Alle storiche bandiere della lotta per la democrazia, lo sviluppo e il lavoro si affiancarono quelle della questione morale, dell’austerità intesa come valore e non come eventuale dura necessità (una sorta di anticipazione della decrescita felice) dell’ambientalismo (che portò il partito che aveva eletto Felice Ippolito al Parlamento Europeo a chiudere le poche centrali nucleari che avevamo) e della questione femminile, non più declinata nei termini della emancipazione, ma in quelli incomprensibili della “differenza”. Da partito del lavoro a partito dei diritti civili: il Pci di Berlinguer si avviava a diventare quello che Mino Martinazzoli temeva di più: un partito radicale di massa.

La grande illusione infranta

Un partito diverso (e superiore) di tutti gli altri, promotore di una grande riforma morale ed intellettuale, alfiere della lotta alla corruzione e portabandiera dell’onestà: troppo! Più che una grande ambizione questa era una grande illusione che impedì però al Pci, dopo la morte di Berlinguer, di aprire un proficuo confronto con tutte le altre forze del socialismo italiano al fine di convergere tutte sull’unico terreno che rendeva possibile una alternativa alla Dc: quello del riformismo socialista. Così non è stato e anche per questo la “grande illusione” si è infranta contro il muro di Berlino ed è restata sepolta sotto le sue macerie al pari dell’utopia comunista dalla quale era derivata.

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