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Beppe Vacca: “Da Gramsci al SI’ nel referendum”

Filosofo e storico delle dottrine politiche, accademico e parlamentare, presidente della Fondazione Gramsci, Beppe Vacca è stato uno degli “intellettuali organici” più brillanti del Pci ed è ancor oggi una figura di grande spicco culturale e politico della sinistra italiana, oltreché uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti, su cui ha scritto un’infinità di libri tradotti in tutto il mondo. Entrato nel Pci negli anni ’60, si avvicinò subito alla tendenza movimentista di Pietro Ingrao e non mancò di guardare con simpatia agli “eretici” del Manifesto, per poi spostarsi successivamente verso il centro berlingueriano del Pci senza disegnare rapporti di collaborazione con Massimo D’Alema. Alle ultime due primarie del Pd, Vacca ha votato prima per Bersani e poi per Cuperlo, ma oggi è più che mai convinto della valenza riformatrice di Matteo Renzi ed è sceso in campo, con grande passione, nel fronte del SI’ al referendum.

Professor Vacca, se non è proprio una sorpresa, certamente non era per nulla scontato che un intellettuale con il suo percorso culturale e politico partecipasse alla battaglia referendaria presiedendo il Comitato del Lazio per il SI’ al referendum sulla riforma costituzionale: che cosa l’ha spinta a questa scelta di campo?

“Essendo io un togliattiano storico e perciò gramsciano, in quanto tale vedo nell’attuale Pd l’espressione dell’unico progetto politico significativo della Seconda Repubblica con uno sguardo sempre proiettato sulla lettura politica del Paese. Un progetto che è nato dal tentativo di integrare le due culture midollari della Repubblica, la cattolico-democratica e la togliattiana, ambendo ad essere forza fondamentale della democrazia italiana e del processo europeo. Ecco perché ho sempre interpretato e vissuto il Pd in chiave costituentista come erede della storia migliore dell’Ulivo e come soggetto ricostituente dell’impalcatura politica dello Stato, secondo le cifre della politica gramsciana e del cattolicesimo democratico. Ne discende come naturale conseguenza il mio sostegno per il SI’ nel referendum a una riforma costituzionale che finalmente supera il bicameralismo paritario e ridefinisce i rapporti tra Stato e autonomie locali, rafforzando gli organi di garanzia e la forma di Governo senza toccare i poteri del premier”.

Fatico a trovare nelle sue attuali posizioni politiche a sostegno del SI’ l’eco dell’”eresia movimentista” dell’Ingrao del ’68.

“Le ricordo che negli anni ’70 Pietro Ingrao fondò il Centro per la riforma dello Stato del Pci e che negli anni ’80, quando la crisi della democrazia rendeva più urgente la riforma delle istituzioni, l’ingraismo, inteso come filone del togliattismo, fu la componente dell’allora Pci che più si battè per le riforme istituzionali arrivando nel 1986,a proporre un governo costituente”.

Che nesso c’è tra il pensiero e la prassi di Gramsci e di Togliatti, verso i quali i suoi scritti sono pieni di ammirazione, e la sua attuale collocazione referendaria?

“Il nesso è la concezione della democrazia e la consapevolezza che la nazione democratica è un plebiscito quotidiano che si rinnova continuamente. La democrazia non è solo votare ogni cinque anni ma è partecipazione attiva dei cittadini, esattamente come sta cominciando ad avvenire in questa campagna referendaria”.

Che cosa l’ha indotta principalmente a schierarsi per il SI’ nel referendum? La lotta al populismo che attraversa tutto l’Occidente, la simpatia per il disegno modernizzatore di Renzi o i contenuti della riforma costituzionale?

“Senza enfatizzare la portata della riforma costituzionale, ciò che mi spinge a sostenerla è il disegno complessivo di rafforzamento delle funzioni di governo in un Paese progressivamente smembrato negli ultimi trent’anni e – ecco il suo secondo elemento identitario –il suo collegamento con l’europeismo, inteso come costruzione della sovranità sovranazionale dall’alto e dal basso. Riforma costituzionale e nuovo modo dell’Italia di stare in Europa superando l’introiezione passiva del vincolo esterno vanno di pari passo e bisogna riconoscere che Renzi ha saputo ribaltare il paradigma Italia-Europa, ponendo al centro della sua azione la missione europea dell’Italia e di conseguenza il tipo di Europa che oggi serve ai cittadini, anche italiani”.

Parafrasando Togliatti e Berlinguer, nella riforma costituzionale c’è più rinnovamento o più continuità ed è più rivoluzionaria o più conservatrice?

“Nella riforma c’è la moderna restaurazione di alcuni fondamenti della democrazia parlamentare repubblicana, non dimenticando la differenza tra Togliatti padre costituente e Berlinguer “conservatore” sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale”.

Professore, Lei sa bene che, al di là dei suoi specifici contenuti, la riforma costituzionale è avversata dai sostenitori del NO per il cosiddetto “combinato disposto” con Italicum che finirebbe, secondo i critici, per dare troppo potere al Governo e al premier in un Parlamento dove solo una Camera potrà votare la fiducia: che cosa pensa di queste obiezioni?

“Penso che il “combinato disposto” sia stato spazzato via dall’ultima Direzione del Pd e che non ci siano più alibi per non sostenere il SI’ al referendum, perché in politica le parole sono pietre, se non si vuole scivolare nel processo alle intenzioni. Ed è indubbia l’apertura politica su tre punti chiave dell’Italicum con la disponibilità a rivedere le norme sul doppio turno, sul premio di maggioranza e sulla formazione delle liste”.

C’è chi sostiene che il vero spartiacque del referendum non è solo tra rinnovamento della Costituzione o status quo ma che si gioca sul futuro stesso delle riforme in Italia e metta in alternativa il sostegno popolare a tutta la politica delle riforme avviata dalla riforma costituzionale con lo stop per anni e anni alla strategia delle riforme che un’ipotetica vittoria del NO comporterebbe: qual è il suo parere?

“Negli ultimi vent’anni abbiamo fatto alcune riforme costituzionali senza gli strumenti classici (l’Assemblea costituente o una Commissione costituente) bensì con l’articolo 138 della Carta Costituzionale. Ma in un Parlamento eletto con leggi elettorali maggioritarie è improbabile che si formi una maggioranza di 2/3 degli eletti favorevole alla riforma costituzionale e diventa naturale il ricorso al referendum, che a differenza di quello liberamente voluto da Cameron sulla Brexit, è nel nostro caso un atto reso obbligatorio dalla Costituzione stessa. Siamo di fronte a un cambiamento che interrompe decenni di inerzia e che, verosimilmente, dovrà proseguire in futuro Parlamento anch’esso maggioritario. In sostanza, se al referendum vincerà il SI’ ci sarà un impulso a continuare sulla via delle riforme, mentre la vittoria del NO segnerebbe un clamoroso fallimento della possibilità di cambiare la Costituzione attraverso il 138 e renderebbe necessario un’Assemblea costituente in tempi presumibilmente biblici”.

I sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani nel referendum raccontano che il Sì è discretamente posizionato al Nord ma che al Sud la maggioranza degli elettori sembra decisamente orientata verso il NO alla riforma: come in altre parti del mondo, siamo di fronte alla rivolta delle periferie verso le elites o ci sono ragioni più specifiche che spingono il Mezzogiorno verso il NO?

“Secondo le analisi più recenti delle differenze territoriali dello sviluppo nel nostro Paese risulta che si può considerare come Mezzogiorno l’intera area che comprende tutto il Lazio e scende giù fino alla Sicilia; come Nord l’area che raccoglie solo il Veneto, la Lombardia e spicchi di Piemonte; e che è difficile stabilire se l’Italia abbia ancora un centro, come dimostrano le vicende della Capitale da almeno dieci anni. Oggi il Sud corrisponde perciò a quella parte del Paese dove lo Stato affonda, dove Regioni e Comuni funzionano peggio e dove la partecipazione dei cittadini è più liquida che altrove. Allo stato attuale della campagna referendaria non sorprende che, a fronte di una narrazione distorta e propagandistica dell’esperienza riformatrice del governo Renzi, la partecipazione dei cittadini alla battaglia referendaria sia più faticosa e più lenta e il tasso di emotività sia più alto. Ma l’esito del confronto referendario è tutto legato al tasso di partecipazione: il fronte del SI’ vincerà se, rispetto alle forze in campo oggi, riuscirà a mobilitare e a convincere a votare altri due milioni di cittadini”.

Dopo la Direzione del Pd di lunedì scorso sembra di capire che di fatto il 4 dicembre i referendum non saranno più uno solo ma due: il primo sulla riforma costituzionale e il secondo sull’identità del Pd che mette a confronto la proposta riformatrice di netta discontinuità e vocazione maggioritaria di Matteo Renzi con quella continuista, spesso benaltrista e più preoccupata della rappresentatività che della governabilità dei sistemi politici rappresentata da Bersani e da D’Alema. Come andrà a finire?

“Una consultazione referendaria come quella sulla riforma costituzionale è inevitabile che diventi anche un pronunciamento sull’identità del Pd. Si tratta di decidere se quella di Renzi vada considerata una parentesi o se sia il primo passo di una sinistra moderna che sa fare realmente le riforme e che si fa promotrice di un nuovo europeismo. E lo dico io che avevo appoggiato alle primarie prima Bersani e poi Cuperlo, sottovalutando la spinta innovativa di Renzi. E’ evidente che, se al referendum vincerà il SI’, il  governo Renzi sarà ancor più legittimato a proseguire le riforme”.

E se invece vincesse il NO?

“In quel caso, che Renzi si dimetta o meno da Presidente del Consiglio, resterebbe il problema di fare un Governo per andare alle elezioni dopo aver fatto una nuova legge elettorale, previo pronunciamento della Corte Costituzionale in un contesto internazionale molto difficile e in uno scenario economico che rischia di riavvicinarsi a quello dell’inizio della crisi del 2007-2008. In una situazione del genere, è credibile, anche se vincesse il NO, che si formi un governo diverso da quello attuale? Secondo me no e secondo me si andrebbe a un governo Renzi bis per gestire le elezioni con una nuova legge elettorale in vista di un listone e di una coalizione antipopulista. Di sicuro si drammatizzerebbe lo scontro tra Renzi e Grillo ma con quali benefici per il Paese è lecito dubitare”.

Ma secondo Lei ci sarà la scissione delle minoranza del Pd?

“D’Alema è già fuori. Quanto a Bersani e alla minoranza dem, credo che prima o poi si renderanno conto che nell’ultima Direzione Pd la musica sull’Italicum è cambiata e sarebbe incomprensibile non prenderne atto”.

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