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Bentivogli, Cgil e Pd: “Landini trovi il coraggio di rinnovare davvero il sindacato e la Schlein di osare di più”

INTERVISTA A MARCO BENTIVOGLI, già segretario generale dei metalmeccanici della Fim-Cisl – Sia la Cgil che il Pd hanno un enorme problema di rappresentanza e la capacità di cambiamento di Landini la si misurerà nei fatti, ma i suoi riferimenti al sindacalismo di progetto di Trentin “sono significativi” – Nel Pd la Schlein “deve osare molto di più” perchè “anche una spinta nuova si infrange se la si contorna di vecchia nomenclatura arricchita dai giovani bonsai della stessa”

Bentivogli, Cgil e Pd: “Landini trovi il coraggio di rinnovare davvero il sindacato e la Schlein di osare di più”

Il Congresso della Cgil di questi giorni e appena prima quello del Pd sono stati e sono uno specchio del cammino della sinistra dopo la sonora sconfitta elettorale di settembre che ha aperto le porte al Governo di destra-centro di Giorgia Meloni. Ma la Cgil e il Pd hanno imparato la lezione e che cosa c’è da attendersi dalle due maggiori forze, una sindacale e l’altra politica, della sinistra italiana? Marco Bentivogli, che conosce molto bene il segretario della Cgil, Maurizio Landini, essendo stato per anni alla guida dei metalmeccanici della Fim-Cisl prima di fondare l’Associazione Base Italia, è l’osservatore ideale per decifrare – con questa intervista a FIRSTonline – la realtà dei due congressi. “Il lessico meno politichese” del solito di Landini, la sua aperta ammissione della crisi di rappresentanza del sindacato e della politica di fronte “alla più veloce e profonda trasformazione del lavoro” e l’esplicito riferimento all’innovativo sindacalismo “di progetto” di Bruno Trentin sono una “buona premessa”, così come lo è l’entusiasmo generato dalla nuova segreteria Schlein nel Pd. Ma il difficile viene adesso, quando dalla vaghezza delle parole bisogna passare alla cruda realtà dei fatti e provare a realizzare il cambiamento per davvero. La sfida che attende sia la Cgil che il Pd è gigantesca ma c’è una sola possibilità di vincerla: quella di avviare un rinnovamento radicale del sindacato e della politica e di “osare di più”. Ne saranno capaci? Solo il tempo potrà dirlo ma per valutare la loro reale direzione di marcia non ce ne vorrà molto.

Bentivogli, lei conosce bene Landini essendo stati insieme alla guida dei metalmeccanici: la Cgil che esce da Rimini è come se l’aspettava o c’è qualche elemento di novità?

«Tra la mozione della maggioranza (97%) della Cgil e la relazione di Maurizio Landini c’è un tentativo, apprezzabile, di un lessico meno politichese. Non dico che bisogna parlare “come parlano i lavoratori” ma neanche troppo distante da quel che un cittadino comune possa capire. E semmai bisogna spingere in avanti il proprio linguaggio sul terreno dell’innovazione e mai per vecchie rievocazioni retoriche. Landini lo sa bene e anche chi ancora oggi fa le assemblee quotidianamente nei luoghi di lavoro. Se posso fare un rilievo, la relazione parla troppo al Governo e poco ai “padroni”. È vero che le polarizzazioni danno visibilità ma come Landini dice bene nella parte finale, il sindacato ha un altro ruolo. Siamo di fronte alla più veloce e profonda trasformazione del lavoro, nei prossimi 30 anni avremo 8 milioni di italiani (in età da lavoro) in meno. Bisogna dire qualcosa anche alle imprese sulla battaglia per il futuro del lavoro».

Si può essere d’accordo o meno sulle singole proposte di Landini ma la Cgil di oggi è lontanissima da quella di Di Vittorio, di Lama e di Trentin: come è successo che abbia perso la visione dell’interesse generale del Paese al quale agganciare la difesa dei lavoratori, che sia percorsa da venti di massimalismo e populismo e che sia sempre all’opposizione di ogni riforma? 

«Vero, siamo passati generalmente da un sindacato che spingeva e guidava le riforme (agricoltura, scuola, sanità, fisco, etc.) ad un sindacato che le contrasta e rinuncia persino ad un ruolo di condizionamento. Far vedere ai lavoratori piattaforme infinite che non diventano mai leggi alla lunga aumenta la frustrazione e la disaffezione. Bisogna dire cosa si è in grado di fare e rispondere meno al lavoratore che dice “dove eravate con la legge Fornero”, perché quel lavoratore non lo ricorda perché non scioperò. Altrimenti ricorderebbe: 3 ore in tutte le categorie e 8 nei metalmeccanici. Scioperi che peraltro andarono malissimo nelle adesioni. Comunque le citazioni di Trentin nella relazione sono significative, soprattutto quando ci si pone l’obiettivo di governo dello sviluppo in cui lo stesso criticava il processo di privatizzazioni senza criterio ma mai proponendo la statalizzazione dell’economia». 

In assenza di una autonoma visione strategica, la Cgil di Landini sembra appassionarsi al modello spagnolo di lotta alla precarietà e contraddittoriamente alla mobilitazione generale dei sindacati francesi contro la riforma delle pensioni che in Italia è già stata meritoriamente fatta anche grazie al sostegno dei sindacati: confusione di idee e voglia di tornare indietro?

«In Spagna la vecchia legge Rajoy ha precarizzato molto di più il mercato del lavoro che in Italia. Ci sono da tempo contratti a termine di 1 giorno. La riforma laboral del Governo Sánchez ha inserito regole e incentivi per ridurre la precarietà ma ha mantenuto la liberalizzazione dei licenziamenti della vecchia legge. Io non mi sono mai entusiasmato al “facciamo come” perché spesso è una bufala. Landini attacca il jobs act che anche a mio avviso agisce inutilmente su licenziamenti e non si occupa di formazione, ma purtroppo tralascia i disastri che ha combinato il “decreto dignità” che per combattere i contratti a termine oltre i 12 mesi, ha ridotto la durata dei contratti sullo stile della vecchia legge Rajoy. In Italia si parla più di pensioni che di lavoro. Si tralascia che l’impianto fondamentale della legge previdenziale è la legge Dini fatta nel 1995 in accordo con Cgil Cisl Uil. Ci si occupa dei prossimi 2-3 anni, ma al 2030 mancano solo 5 anni, data in cui andremo tutti con il contributivo (con anzianità al lavoro più lunghe e pensioni più basse). In questi anni abbiamo rappresentato la generazione che è voluta andare in pensione prima per poi continuare a lavorare e non lasciare nessuno spazio. Nel 2030 ci sarà il passaggio a generazioni che andranno in pensione a 70, 75 anni con pensioni più basse». 

Come spiega che la Cgil, malgrado la debolezza e la contraddittorietà della propria linea, riesca a sedurre la Uil e in misura minore la Cisl?

«Sono scelte strategiche diverse. La Uil dopo Luigi Angeletti ha pensato che dietro alla Cgil potesse avere più spazio. La Cisl cerca di recuperare la sua tradizione naturale che la vuole sempre aperta al confronto. Il tema generale lo ha centrato Landini ammettendo il problema generale del sindacato e della politica: la crisi di rappresentanza. Devo dire che va apprezzata la sua spinta a “fare” ciò che si scrive nei documenti (approvati all’unanimità), aumentare la partecipazione ai congressi, appunto “fare” oltre che declamare. Riconoscere che su 5 milioni di iscritti solo 1,4 milioni è stato coinvolto nel Congresso è un atto di verità che riguarda tutto il sindacato, i partiti, le associazioni. Riconoscere limiti e parzialità è sempre una buona premessa. In generale da anni non si fanno grandi accordi, che è un male in generale. Ma guardi è meglio che fare accordi finti. Ci sono accordi interconfederali che non hanno cambiato né in bene né in male la condizione dei lavoratori. Gli accordi devono essere impegnativi per tutti per essere veri. Un es.? L’accordo del 2011 sulla produttività, non ha spinto neanche 1 euro sugli investimenti. Abbiamo avuto anni di bassa inflazione per cui i minimi contrattuali nazionali non erano entusiasmanti ma con questa inflazione, senza rimpiangere la scala mobile, gli aumenti salariali sono molto al di sotto dell’inflazione. Un buon sindacalista e anche un lavoratore che sa leggere la busta paga, sa che gli aumenti se non sono rapportati alla comparazione dell’inflazione sono solo nominalistici. In Germania nei metalmeccanici vi è stato un buon aumento una tantum per il caro energia e un aumento strutturale nei salari».

Che ne pensa della segreteria Schlein nel Pd? Dove può andare ora il maggior partito della sinistra italiana?

«È un momento di entusiasmo nel Pd e va bene. Ma il problema della rappresentanza è gigantesco. Anche una spinta nuova si infrange se la si contorna di vecchia nomenclatura arricchita dai “giovani bonsai” della stessa. Schlein ha ben interpretato la nausea che gli elettori (e gli ex elettori) provano verso il gruppo dirigente ma, come i segretari precedenti, si trova un gruppo parlamentare “nominato” dal vecchio gruppo dirigente e una direzione allargata tra vecchio gruppo dirigente e fedelissimi. Bisogna osare molto di più. Zingaretti e Letta hanno costruito tutta la loro strategia sulle alleanze e l’apertura ad Art.1. Si è fatto rientrare un pezzo di nomenclatura coinvolta nelle varie scissioni. Non basta, ora servirebbe l’operazione art.2, recuperare persone, lavoratrici e lavoratori, l’italia sociale che è grandissima e lontana dalla burocrazia del sociale». 

Landini sembra trovare una sponda nella nuova segreteria del Pd ma, se le sue vaghe idee contro le diseguaglianze e la precarietà al di fuori di un orizzonte di crescita, la sua voglia di patrimoniale e di nazionalizzazioni e la sua ambiguità sull’Ucraina e sulla pace dovessero contagiare il Pd, diventerà molto difficile costruire un’alternativa convincente al Governo Meloni: non crede? 

«Non solo: è evidente, nelle sue parole, l’ammissione di una crisi di rappresentanza, lo sforzo di non chiudersi negli ‘ismi’ in cui spesso indulge la sinistra, anche perché sa bene, Landini, che una parte degli iscritti ha votato Meloni e che il ruolo del sindacato non può essere quello dei partiti e men che meno di opposizione o collateralismi ma, citando Trentin (e io aggiungo Carniti), “di progetto”. Si rende conto che la sinistra, su alcuni temi che riguardano anche la Cgil, vedi il salario minimo o la riduzione dell’orario, banalizza. Landini deve rinnovare la Cgil, non solo anagraficamente, ma costruendo un modello organizzativo più efficace a intercettare persone e esigenze. E soprattutto idee in grado di spingere l’innovazione. Il modello organizzativo sindacale è un tiepido aggiornamento di quello degli anni’70. Bisogna puntare a riforme interne rifondative, radicali e rigeneratrici. Quest’anno celebriamo l’anno europeo delle competenze e il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani. L’accesso al sapere è il fondamento della libertà, della democrazia e della mobilità sociale. E’ il nodo che serve sciogliere per rompere il meccanismo per cui in Italia, più che altrove, la condizione di ricchezza e di povertà la si eredità. Landini sostiene che la madre di tutte le battaglie è il Fisco. Vero, il Fisco è iniquo e l’evasione fiscale è gigantesca. E al contempo chi paga tutte le tasse (anche gli autonomi) ne paga troppe. Su 42 milioni di dichiarazioni Irpef, 30 milioni pagano al di sotto di 185 euro. Le tasse sono altissime e le pagano in pochi. Perché? Perché è più popolare accarezzare le furbizie degli evasori. Nel 1997 si mise in crisi il governo De Mita sul Fisco. Il sindacato aveva il coraggio (con tanto di adesivi) di lanciare la campagna “io pago le tasse e tu?”). Il Governo Meloni parla di “pace fiscale”, “evasione di necessità” e non attua una vera e drastica riduzione delle tasse sul lavoro. Chissà che non riesca a mobilitare cittadini e lavoratori e a svegliare la politica sul tema fiscale e su questo ricostruire un po’ di unità di azione?».

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