Il settimanale “Milano Finanza” si è a lungo interrogato sulla possibilità per le banche popolari di conservare i caratteri della mutualità seguendo la strada dello scorporo delle attività sulla falsariga di quanto avvenuto oltre vent’anni fa per le casse di risparmio (con le fondazioni originarie divenute proprietarie di quote di minoranza e l’apertura al mercato dei capitali) e si chiede perché tale ipotesi riceva al momento e senza esplicite motivazioni la contrarietà di Banca d’Italia. La proposta ci induce ad esplorare un’ipotesi similare, ancorché con differenze rilevanti, anche per il mondo delle Banche di credito cooperativo (o almeno per quelle intenzionate a sottrarsi all’autoriforma in via di definizione), se non altro per misurare più attentamente costi e benefici delle alternative possibili. D’altro canto, nelle intenzioni del Governo, le BCC che non aderiranno al nuovo contesto avranno l’obbligo di trasformarsi in società per azioni ovvero in banche popolari.
La nostra idea consiste nel conferire l’operatività bancaria da parte della attuale cooperativa di credito (che contestualmente rinuncerebbe alla relativa licenza) a una nuova entità bancaria che si costituirebbe sotto forma di società per azioni, avente nel proprio capitale, questa volta in posizione di controllo, il soggetto scorporante. Conservando il carattere di prevalenza delle attività nei confronti dei soci, quest’ultimo dovrebbe salvaguardare i benefici della mutualità goduti fino al momento della trasformazione, “congelando” le riserve accumulate secondo il principio della loro indivisibilità. Tali finalità, finanziate poi con i dividendi distribuiti dalla banca, potrebbero riguardare attività assistenziali, sanitarie, assicurative, sportive, infrastrutturali, culturali, di inclusione sociale e altro di cui abbia necessità le comunità del territorio. Senza quindi rinunciare ai criteri solidaristici della cooperazione, questa trasformazione replicherebbe la condizione della proprietà cooperativa di imprese in veste di società per azioni, rapporto di sostanziale successo in molti comparti produttivi. Perché dunque questo modello non dovrebbe funzionare nel caso della cooperazione bancaria?
Ancorché libero di svolgere a tutto tondo la propria attività, il nuovo soggetto bancario dovrebbe darsi, su input della base sociale interessata alla massimizzazione dei benefici, ma anche alla sostenibilità dei relativi rischi, alcuni rigidi limiti statutari, ad esempio in termini di destinatari dei servizi (per lo più famiglie e imprese del territorio), di diversificazione quali-quantitativa dei rischi (per settore, individuali e di gruppo), di turnazione dei vertici (con periodi di massima permanenza), di modalità di selezione del management (meritocratica per qualità e ampiezza delle esperienze pregresse), di penalizzazioni (con dimissioni ed esclusioni) in caso di conflitti di interesse non appropriatamente gestiti ovvero di colpe gravi (ad es. in caso di importanti sanzioni amministrative comminate dalle Authority), di controllo e rendicontazione dei risultati (ad es., in termini di attività bancarie innovative). E così via, secondo un definito contesto di regole comportamentali per il buon governo della partecipata bancaria, sottoposta dalla proprietà cooperativa a pregnanti modalità di verifica del suo operato. Quanto all’apertura al mercato, dovrebbero essere previsti limiti alla quota massima detenibile dalla cooperativa scorporante, cosa che favorirebbe l’ingresso di nuovi capitali da parte di altri soggetti, bancari e non, anche esterni al territorio, desiderosi di investire nella iniziativa.
Nel contempo, la trasformazione in spa non dovrebbe essere normativamente consentita a tutte le BCC, ma solo a quelle con un capitale minimo predefinito (70/80 milioni?), elemento sul quale le Autorità potrebbero far leva per incentivare operazioni di consolidamento. Il modello si presterebbe infatti a svolgere una funzione aggregante tra banche della stessa categoria con analoghe prospettive di mercato e propensioni alla efficiente gestione della macchina operativa.
È evidente che da quel momento in poi verrebbero perduti i benefici fiscali, essendo la nuova attività organizzata secondo il modello profit della società azionaria, ma è altrettanto vero che sarebbero acquisiti vantaggi in termini di operatività, superando gli attuali vincoli della prevalenza verso i soci, dell’espansione territoriale, dell’acquisizione di partecipazioni e di altre specifiche regole di assunzione dei rischi, ora previsti per le BCC. In specie per i soggetti di maggiori dimensioni, queste limitazioni assumono un peso crescente, riducendo le opportunità di business che si presentano. D’altro canto, anche trattamenti più favorevoli della regulation, in applicazione del principio di proporzionalità, sembrano finora stentare ad affermarsi. Di tal che gli svantaggi complessivi della attuale veste cooperativa sembrano superare, soprattutto per i soggetti più dinamici, i vantaggi in atto consentiti dal peculiare regime. Un contesto più forte e quindi più competitivo è importante anche per le innovazioni finanziarie/tecnologiche che si vanno proponendo (industria dei pagamenti, crowdfunding, banca web, digitalizzazione dei processi, tecniche di CRM, piattaforme internet per le gestioni patrimoniali o altre modalità più efficienti di distribuzione dei prodotti), spesso ritenute dalla banca minore non alla propria portata.
Al contrario, per lo sviluppo economico/finanziario dei territori, dovrebbe essere strategico l’assunto che anche su questi mercati l’offerta di servizi bancari non possa non mantenersi allineata a quella dei mercati più grandi e complessi. Ecco quindi un altro motivo in favore di infrastrutture creditizie più dinamiche, rivolte alla creazione di valore per le proprie comunità, piuttosto che al mantenimento di costose prerogative associative e istituzionali. È bene, infatti, ricordare che il costo del prodotto bancario facente capo al sistema delle BCC si è finora mantenuto su livelli più elevati rispetto alle altre forme di intermediazione creditizia e che la riforma sembra preoccuparsi di tenere assieme componenti del movimento divenute sempre meno omogenee piuttosto che della sua riconfigurazione industriale.
E qui veniamo alla seconda possibilità, cioè alla trasformazione delle BCC in banche popolari, anch’esse, come noto, società cooperative, ancorché a mutualità non prevalente. Questo segmento, attualmente costituito da 37 intermediari, vedrà nei prossimi due anni l’uscita, ope legis, delle maggiori 10 (quelle con attivo superiore a 8 mld) verso la forma della spa. Le rimanenti 27 totalizzano, secondo i più recenti dati Banca d’Italia (audizione alla Camera dei deputati del suo Direttore Generale del febbraio scorso), attivi per meno di 50 mld di euro, pari al 2% circa dell’intero sistema nazionale; le ultime 12 nella graduatoria dimensionale hanno asset di importo unitario inferiore al miliardo. Altre tre superano di poco quel limite. Ciascuna delle 8 più piccole gestisce attività per poche decine di milioni. Sempre tra le 27, una delle maggiori, alla fine di una lunga crisi è stata incorporata da una consorella più grande, mentre la sesta per dimensione può ammettere a socio solo una particolare categoria di soggetti, circoscrivendo ad essi l’operatività.
Il sistema, cui il modello si riferisce, si è quindi evoluto in maniera distonica al punto che le banche popolari maggiori dovranno rinunciare alla configurazione cooperativa, mentre le minori restano confinate in una posizione di mercato sostanzialmente marginale. Un fattore critico le ha viceversa accomunate tutte, dato che su entrambi i raggruppamenti hanno pesato, pur con le debite eccezioni, inefficienze gestionali strettamente riconducibili alle peculiari caratteristiche di governance, voto capitario in primis.
Come può dunque la sparuta rappresentanza delle piccole popolari, per le quali non sono previste rilevanti modificazioni di governo societario, rappresentare un modello per BCC di dimensioni già più grandi, organizzativamente più complesse e patrimonialmente più forti? Dietro a questa eventuale soluzione sembra esservi una concezione cooperativistica di maniera, piuttosto che una scelta in grado di costituire un valido percorso di miglioramento delle performance delle banche locali. Pertanto, se è comprensibile che in questa fase alcune delle BCC più solide pensino a restare fuori da una riforma del credito cooperativo che rischia di fare di ogni erba un fascio (si vedano, sul tema, gli articoli comparsi su Firstonline nelle settimane passate), è altrettanto conseguente che esse si predispongano a compiere la scelta più adeguata tra le opzioni possibili. In specie per quelle che intendano rafforzare l’azione imprenditoriale a sostegno dell’economia dei propri territori è di fondamentale importanza seguire anche l’evoluzione in corso del quadro normativo europeo dopo l’avvio dell’Unione Bancaria.
Solo per fare un esempio, recenti determinazioni della Commissione Europea, Direzione Generale della Concorrenza, rendono sempre più arduo il mantenimento dei principi di mutualità come li abbiamo finora praticati anche a livello di sistema, se, già dai prossimi mesi, una BCC in crisi, per non incorrere nell’ipotesi degli aiuti di stato, dovrà chiamare in soccorso, prima delle proprie consorelle, azionisti, obbligazionisti e grandi depositanti, rendendo le riserve indivisibili una barriera sempre più sottile nei confronti delle altre forme di esercizio dell’attività bancaria. Come si vede la materia è complessa, con scenari fino a poco tempo fa difficilmente ipotizzabili.
Ciò che qui, in definitiva, proponiamo è che le BCC con migliori prospettive si misurino con soluzioni più sfidanti invece che con paradigmi che non hanno brillato finora per capacità di fare banca, ma che possono magari sembrare più accedibili soltanto perché mantengono, nominalisticamente, il termine di cooperativa di credito. In questo, come in altri casi, però, nomina non sunt substantia rerum. E noi tutti sappiamo quanto bisogno ci sia di banche nuove.