La notizia diffusa dai mass media del recente accordo raggiunto tra Cassa Centrale Banca e Iccrea Banca – entrambe ai vertici dei due gruppi bancari cooperativi istituiti a seguito della emanazione della legge n. 49 del 2016 – in ordine alla questione del recesso delle Bcc aderenti al primo gruppo e partecipanti al capitale della seconda segna un’ulteriore tappa della ‘strana storia’ delle banche di credito cooperativo.
Tale accordo pone fine, infatti, alla “querelle” in materia sorta tra le Bcc che hanno aderito al gruppo trentino ed Iccrea Banca, alla quale era stata richiesto il rimborso delle partecipazioni azionarie dalle stesse detenute nel capitale sociale di quest’ultima. E’ venuta meno, dunque, ‘la materia del contendere’ a fondamento di alcuni giudizi arbitrali attivati da dette Bcc al fine di accertare la sussistenza dei relativi diritti. Siffatto epilogo della vicenda se, per un verso, induce a valutare positivamente la pacifica definizione di liti che avrebbe potuto aumentare il clima di tensione già esistente all’interno della categoria, rappresenta peraltro un’occasione perduta per addivenire a un vaglio giudiziario sulla “tenuta costituzionale” della riforma del 2016.
Si ha riguardo, in particolare, al fatto che con la cessazione dei menzionati giudizi arbitrali è venuta a mancare la possibilità, per le banche cooperative, di avere dai Collegi Arbitrali un pronunciamento (ed un eventuale rinvio al Giudice delle Leggi) sulla legittimità costituzionale della riforma del 2016, questione sollevata dinanzi ad uno dei suddetti Collegi giudicanti in sede di costituzione dello stesso.
Ciò, sia con specifico riferimento alle esclusioni del diritto di recesso stabilite dall’art. 2, comma 1, della legge 49/2016 per le Bcc partecipanti alla capogruppo e per i soci delle Bcc partecipanti, in relazione alle modifiche statutarie (della capogruppo e delle singole Bcc) propedeutiche e necessarie per l’attivazione del gruppo, limitazioni incondizionate già criticate in dottrina (Sacco Ginevri) e che non appaiono coerenti con le indicazioni che la stessa Corte Costituzionale ha fissato nella sentenza n. 99/2018 in analoga materia; sia, più in generale, con riferimento ai contenuti complessivi della normativa in parola che, secondo autorevoli voci (Onida, Capriglione), risulta antitetica e contraria ai principi della «mutualità cooperativa» costituzionalmente tutelata.
In altri termini, le Bcc – per quanto possano ritenersi soddisfatte a seguito del riconoscimento delle loro richieste economiche – hanno perso, a ben considerare, una favorevole occasione per far valere le loro istanze a rivisitare una legge che, secondo le riportate tesi e secondo un comune sentire tra le stesse (forse molto più diffuso di quanto effettivamente nelle sedi istituzionali manifestato), incide negativamente sulla loro essenza di ‘banche mutualistiche’, violando nel contempo fondamentali principi consacrati nella Carta costituzionale: dalla libertà di associarsi a quella di iniziativa economica.
Ho già altrove sottolineato, commentando le vicende relative all’intervento di Cassa Centrale Banca nel salvataggio di Carige (e alla prospettata assunzione del controllo di Carige stessa), come, a mio avviso, seppure nel tempo, concreta sia l’ipotesi che la riforma del 2016 conduca a una eterogenesi del gruppo, che nasce come “cooperativo” e si trasforma in “lucrativo”, realizzando per tal via, anche per le singole Bcc, se non un sostanziale abbandono dello scopo mutualistico, una emarginazione dello stesso, assorbito ed annullato dall’esercizio, da parte della capogruppo e del gruppo nel suo insieme, di un’attività economica finalizzata a scopi di lucro.
Sono evidenti dunque le ragioni che avrebbero giustificato in tale prospettiva, anche in relazione alle autorevoli voci sopra richiamate, un intervento della Corte, dando così soddisfazione alla sentita esigenza di fare definitiva chiarezza su una realtà normativa che, per molti, ha realizzato un piano strategico di riforma che, al di là delle petizioni di principio, in concreto non appare improntato a finalità coerenti con quelle mutualistiche e con il sostegno allo sviluppo dei mercati locali.
Affrontando il rischio di una critica volta a ravvisare nelle mie parole l’intento di proporre una costruzione fondata sulla dietrologia, ma confortato dall’adagio che “a pensare male si fa peccato, ma qualche volta si indovina”, non mi sento di escludere che il felice esito del bonario componimento realizzato nei richiamati giudizi arbitrali trovi anche ragione nel comune interesse delle due capogruppo ad evitare un vaglio del Giudice delle Leggi della disciplina che giustifica l’esistenza delle stesse. Tale interesse, potrebbe aver agito da catalizzatore nell’attività di ricerca di una qualche forma di conciliazione delle dispute arbitrali in corso.
Tutto ciò, nonostante il conseguente impegno assunto da Iccrea Banca di pagare per il rimborso delle azioni oltre duecento milioni (al netto delle partite compensate), debito il cui gravoso adempimento, se per un verso, è stato diluito in un ampio arco temporale (rendendo forse necessario, come indicato dalla stampa specializzata, anche il ricorso ad interventi di finanziatori esterni alla categoria), per altro, ha nei fatti sostanzialmente posto a carico dell’intero sistema cooperativo (e non solo di Cassa Centrale Banca) il salvataggio di Carige.
La soluzione individuata appare di certo coerente con le linee guida dell’Organo di supervisione il quale – nell’intento di garantire il sistema da eventuali turbative che possano minarne gli equilibri – ha dato sempre priorità all’obiettivo di una «pacifica convivenza» tra gli appartenenti alla categoria.
Resta ferma, ovviamente, la consapevolezza della irreversibilità della mutazione del sistema delle Bcc, dall’Autorità di Vigilanza stessa sollecitata agli inizi del decennio in corso con la richiesta di un’«autoriforma» degli appartenenti a tale settore bancario.
Non può tuttavia sottacersi che taluni aspetti della disciplina, più di altri, meriterebbero una riflessione e fors’anche un intervento normativo correttivo (quale quello che ha portato alla possibilità per il gruppo provinciale di Trento e Bolzano di adottare lo schema dell’IPS, anzi che quello del gruppo bancario cooperativo); primo tra tutti la disciplina di exit dal gruppo, le cui condizioni (al netto dei dubbi circa la loro legittimità) lo rendono sostanzialmente irrealizzabile, anche nei casi in cui il livello di conflittualità tra la capogruppo e qualche banca aderente abbia raggiunto livelli di guardia. Al di là dell’esercizio della moral suasion o di interventi autoritativi della capogruppo sulle Bcc recalcitranti, potrebbe essere la stessa Autorità di vigilanza ad avere armi spuntate qualora la soluzione migliore fosse un ‘divorzio consensuale’.
Nel frattempo, unica garanzia è che l’Autorità sia vigile guardiano della corretta osservanza, da parte delle nominate capogruppo, delle linee applicative delle prescrizioni disciplinari che definiscono gli ambiti dei relativi interventi; evitando che, in un poco auspicabile delirio di onnipotenza – che non trova nemmeno fondamento nel diritto di proprietà, ma in una missione che la legge ha affidato alla capogruppo su base contrattuale – venga sacrificata l’autonomia gestionale delle singole banche di credito cooperativo, in vista del perseguimento di interessi che potrebbero avere poco o nulla a che fare con le originarie finalità mutualistiche della categoria.