Ci sono espressioni che ripetutamente usate diventano veri abusi metaforici, cioè finiscono per tradire il loro vero significato. L’espressione “rischio sistemico” rischia di diventare una di queste, venendo spesso impropriamente evocata. Per gli organismi di vigilanza internazionale (BRI, BCE etc), il rischio sistemico è il rischio che l’insolvenza o il fallimento di uno o più intermediari determini generalizzati fenomeni d’insolvenza o fallimenti a catena di altri intermediari. Il sistema bancario e finanziario caratterizzato da forti interconnessioni è esposto agli effetti negativi del rischio sistemico.
Contagio ed effetti domino che determinano instabilità di intermediari e mercati seguono di solito ad uno shock iniziale come può essere lo scoppio di una bolla speculativa o il default di qualche grande intermediario. È quindi un incombere negativo di grandi eventi distruttivi dell’ordine delle cose, dagli effetti gravissimi e non misurabili a priori sul welfare del risparmiatore, che nei casi più estremi si manifesta con la corsa agli sportelli bancari. E’ il mostro da combattere, in nome di un interesse generale volto a evitare crisi di fiducia dei depositanti, in difesa della quale si giustificano anche interventi pubblici, cioè a carico dei contribuenti. In Europa e in altri paesi gli anni della crisi hanno visto default di intermediari in grado di attivare effetti sistemici, se non addirittura di essere stati causa di quella crisi.
Ecco quindi le 130 banche europee, di cui 15 italiane, passate sotto il controllo della BCE, (cd. Banking Union), che si è assunta anche il compito di sorvegliare, in nome del rischio sistemico, anche i sistemi di pagamento e le piattaforme di regolamento all’ingrosso come Target 2 e Target 2 Securities. Potremmo essere più precisi, ma ci basta aver dato l’idea, richiamando anche le competenze che restano in carico agli organismi di vigilanza nazionali, d’ora in poi dedicati alle banche cosiddette less significant e quindi non sistemiche.
Le Banche di credito cooperativo rientrano ovviamente tutte in questa categoria. Ebbene, dal primo gennaio prossimo, con l’entrata in vigore della normativa europea sulla risoluzione delle crisi e sui sistemi di garanzia dei depositi, è proprio per la loro non rilevanza sistemica, anche per questi intermediari non sarà più possibile escludere la liquidazione atomistica, cioè il fallimento, come ordinariamente avviene per tutte le imprese. E ciò in contrasto con quanto è stato sistematicamente evitato in tutti i 20 anni di storia dal Fondo di Garanzia dei Depositanti.
In presenza di deficit patrimoniale, sarà giocoforza provvedere da parte di detto organismo al rimborso dei depositanti protetti, per poi suddividere tra gli altri creditori ciò che, eventualmente, rimarrà dalla liquidazione degli attivi. Ove non sufficienti, l’onere residuo si riverserà, oltre che sugli azionisti, sugli obbligazionisti e sui depositanti con disponibilità maggiori di 100.000 euro. Il famoso bail in, dalle conseguenze non ancora del tutto chiare nemmeno tra gli addetti ai lavori. Si dovrà cessare la prassi deresponsabilizzante e onerosa di ripartire tra tutte le BCC i costi di cattive gestioni, in nome del solidarismo cooperativo, paventando rischi di reputazione e addirittura il diffondersi del panico anche su mercati minori. Cosa che, come capite, non può essere né in linea di principio né in linea di fatto riconducibile al rischio sistemico come sopra definito e applicato nella Unione Bancaria.
In verità, a non accettare più questo tipo di salvataggi è stata per prima la Direzione Generale della Concorrenza della Commissione Europea, cui gli interventi della specie sono sottoposti, per valutarne l’impatto sui principi della concorrenza. Essa è stata categoricamente impietosa, considerandoli aiuti di Stato. I tentativi di opporsi a queste risoluzioni da parte di Banca d’Italia e del sistema cooperativo sono stati finora inutili, al punto che la questione ha assunto rilevanza politica, perché farsi dire dall’Europa che le nostre prassi si configuravano come interventi pubblici non è stato certamente bello, ma soprattutto perché un siffatto sistema ha nel tempo deresponsabilizzato i vertici delle gestioni bancarie, impedendo il formarsi di robuste policy di prevenzione. Un esempio concreto di azzardo morale, i cui costi hanno sicuramente sottratto ingenti risorse al rafforzamento e allo sviluppo del movimento. E tutto ciò per non parlare degli effetti sulla concorrenza, questa sì da tutelare anche sui mercati bancari minori a vantaggio dell’utente finale, a causa del sostegno indiscriminato, assicurato a intermediari inefficienti e quindi più costosi per tutti.
CONCORRENZA DI GRUPPO O FRA GRUPPI: amletico dilemma di una riforma
A questo punto sembra d’uopo ritornare su un tema già trattato su FIRSTonline il 21 ottobre scorso. Vale a dire sulla concorrenza che dovrebbe miracolosamente svilupparsi fra una pluralità di gruppi paritetici cooperativi, che, dopo le indicazioni rilasciate dal Governatore di Banca d’Italia in sede Acri, sembra ormai contraddistinguere lo scenario della (auto)riforma in fieri del credito cooperativo. E ciò non tanto per riconfermare alcune perplessità circa il funzionamento di un sistema in cui la molteplicità risponderebbe da un lato alla preservazione di un banking etnico per di più diviso tra due raggruppamenti presenti in una sola Regione come il Trentino Alto Adige, dall’altro in altre volontarie iniziative di concentrazione dai contorni ancora non noti.
I principi della concorrenza non si preservano ammettendo più soggetti ad una gara dalle regole tutte da costruire quanto dalla competizione tra progetti industriali diversi, assistiti da adeguate risorse tecniche, finanziarie, manageriali, frutto di piani di investimento complessi e coerenti. Tali progetti sembrano al momento del tutto assenti nella maggior parte dell’universo cooperativo. Per promuovere la concorrenza non tanto tra aggregazioni all’interno di uno stesso sistema, quanto nei confronti di sistemi esterni ad esso, è necessario sviluppare, integrandoli, nuovo business bancario cooperativo e nuovo know how realizzativo.
Purtroppo le notizie di cui al momento si dispone non sembrano rispondere né all’una né all’altra prospettiva. Soprattutto nessuno finora ha cercato di dimostrare i benefici da riversare sui clienti del credito cooperativo in termini di prezzi e qualità dei servizi bancari come conseguenza di una riforma, che per essere portata a compimento, si vede costretta a frazionare il sistema rispetto alla sua unitarietà. Profilo questo che, facendo salve solo dimostrabili eccezioni imprenditoriali cooperative, ci parrebbe senza dubbio più adatto ad affrontare le numerose e rilevanti criticità che hanno portato a questa fase di necessitata trasformazione.