La gravità del problema
Le tensioni di mercato, manifestatesi nel settore bancario italiano nei giorni passati, hanno messo in luce una fragilità del nostro sistema finanziario che sembra soprattutto dovuta alla presenza di un elevato ammontare di crediti problematici in gran parte dei bilanci bancari. Si tratta di una situazione nota da tempo, ma che è diventa più difficile da contenere all’inizio del 2016 quando sono entrate in vigore le nuove norme europee relative al secondo pilastro dell’Unione Bancaria. Per giunta, tali novità normative sono state precedute dallo scoppio della crisi di alcune banche regionali e locali italiane e da un peggioramento nelle prospettive macroeconomiche mondiali.
L’obiettivo della proposta qui presentata è di consentire anche alle banche italiane più fragili di risolvere il problema dell’eccesso di non-performing loans (NPL) mediante strumenti di mercato che siano sostenuti, solo in ultima istanza, da garanzie fornite dallo Stato. Senza questa garanzia, che nella nostra proposta si somma a quella fornita dalle stesse banche e che porta così a una “doppia garanzia”, le soluzioni in discussione (incluse le diverse forme di bad bank o il ricorso a garanzie di mercato) appaiono inefficaci. L’attuabilità della nostra proposta presuppone peraltro che la Commissione europea riconosca la natura sistemica del problema, ossia che consideri la situazione dei NPL come una concreta minaccia alla stabilità finanziaria non solo dell’Italia ma dell’intera Eurozona. Conformemente ai Trattati europei, una situazione del genere imporrebbe di sospendere le norme sul bail in – ossia il coinvolgimento di azionisti e creditori subordinati nella risoluzione della banca – in presenza dell’attivazione di un sostegno pubblico.
I fattori di instabilità
La fine del 2015 e l’inizio del 2016 sono stati segnati da un mutamento nelle prospettive dell’economia internazionale che ha riprodotto, ma con segno opposto, quanto era avvenuto fra l’autunno e l’inverno del 2014. La crisi di una parte dei paesi emergenti, il crollo davvero eccessivo nel prezzo del petrolio, il rallentamento dell’economia cinese, le fragilità della crescita statunitense che si sommano all’inversione del ciclo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, la possibilità ancora indeterminata di ulteriori azioni di stimolo monetario da parte della Banca centrale europea sono una combinazione di fattori che ha peggiorato le attese di crescita anche per le economie dell’Eurozona.
A ciò si è aggiunto uno shock specifico all’Italia, causato dalla risoluzione di quattro banche regionali e locali che rappresentavano una quota minima delle attività bancarie nazionali (circa l’1%). In linea di principio, l’episodio non avrebbe dovuto avere rilevanza sistemica. L’impatto è stato però accentuato da due fattori: innanzitutto, a causa delle regole europee varate nell’estate 2013, la modalità di ristrutturazione delle quattro banche ha coinvolto i detentori di obbligazioni subordinate (piccoli o grandi che fossero); in secondo luogo, tale modalità ha reso evidente a tutti che l’entrata in vigore – appunto dal primo gennaio del 2016 – della nuova regolamentazione europea sulle risoluzioni bancarie incentrata sul bail in avrebbe ulteriormente accresciuto il costo per gli investitori di ogni intervento di ristrutturazione bancaria.
Il peggioramento del quadro macroeconomico e lo shock idiosincratico dell’Italia spiegano perché sia divenuto ancora più urgente trovare una soluzione per l’eccesso di prestiti problematici, che pesa sul nostro settore bancario almeno dal primo semestre del 2012 e che ne rappresenta il maggior problema strutturale. La definizione di una soluzione efficace è più difficile rispetto al recente passato, in quanto le nuove norme europee impongono di ricorrere a meccanismi di mercato. Come si è già detto, queste nuove norme continuano però a riconoscere la possibilità di un intervento dello Stato, nella forma di garanzie ai connessi processi di rafforzamento del capitale delle banche coinvolte, qualora il mero ricorso al mercato non garantisca il soddisfacimento di condizioni finanziarie ordinate.
Le criticità della bad bank
Per affrontare il problema, è necessario che ciascuna delle banche italiane abbia l’opportunità di cedere una quota di crediti problematici sufficiente a riportarne il peso, rispetto alle sue attività di bilancio, entro proporzioni fisiologiche. In linea di principio, tali cessioni devono avvenire a prezzi di mercato e avere come potenziali acquirenti veicoli di cartolarizzazione (i cosiddetti ‘special purpose vehicle’: SPV). Va tuttavia considerato che, nella congiuntura degli ultimi tre/quattro anni, in media i divari fra i prezzi medi di mercato di ciascun NPL e il corrispondente valore iscritto nel bilanci bancari (valore contabile) sono elevati. Un calcolo grossolano indica che, in media, questi divari si attestano intorno ai 25/30 punti base. Se il nostro calcolo fosse corretto, la cessione di una quota adeguata di prestiti problematici determinerebbe perdite così ingenti per i più fragili gruppi bancari italiani da richiedere nuove ricapitalizzazione. Vi è pertanto un rischio non trascurabile che ogni tentativo di risolvere il problema in un ‘colpo solo’ (frontloading) generi scossoni di portata tale da minacciare la stabilità dell’insieme del settore bancario e finanziario italiano con ripercussioni sul resto dell’Eurozona.
L’istituzione di una bad bank da parte di ciascuno dei gruppi bancari interessati incontrerebbe problemi analoghi. Benché la cessione sul mercato dei prestiti problematici da parte di ognuna delle bad bank possa essere graduata nel tempo, il trasferimento dei prestiti problematici dalla banca originante a prezzi di mercato ne farebbe emergere le perdite in via immediata – come è, del resto, avvenuto nel caso delle quattro banche italiane appena risolte. Viceversa, se questo trasferimento avvenisse a prezzi non di mercato ossia più vicini a quelli contabili, vi sarebbe una riallocazione delle perdite attese a danno del bilancio della specifica ‘banca cattiva’ che va peraltro incluso nel consolidato del gruppo della banca originante. E’ per giunta molto probabile che, specie nell’ultimo caso, la costituzione delle bad bank farebbe scattare l’apertura di un processo di risoluzione, ai sensi della direttiva europea BRRD, con la conseguente applicazione delle nuove norme sul bail in. Come si è già accennato, una simile ristrutturazione di gruppi bancari italiani avverrebbe a condizioni ancora più gravose per i risparmiatori di quanto avvenuto per le quattro piccole banche ristrutturate alla fine del 2015.
L’avvio di un (improponibile) processo europeo di risoluzione per una parte consistente del settore bancario italiano diventerebbe pressoché certo in caso di istituzione di un’unica bad bank pubblica per l’insieme delle banche interessate. E’ vero che, in tale caso, ciascun gruppo bancario con un’incidenza eccessiva di prestiti problematici massimizzerebbe il vantaggio delle cessioni graduali sul mercato di quella parte dei prestiti che ha trasferito alla bad bank pubblica. Come il governo italiano ha appreso nei mesi passati, la Commissione europea ha tuttavia sottolineato l’impraticabilità di una soluzione del genere perché incentrata su un salvataggio pubblico.
Il conseguente confronto fra istituzioni europee e governo italiano sembra aver portato a una soluzione di compromesso, adombrata sia nell’intervista del Commissario UE alla Concorrenza – Margrethe Vestager – al Corriere della sera del 21 gennaio scorso, sia nelle dichiarazioni del Ministro italiano dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il compromesso dovrebbe prevedere che ciascuna delle banche italiane possa cedere, a prezzi di mercato, una quota adeguata dei propri crediti problematici a SPV. Inoltre, al fine di attenuare i divari fra questi prezzi e quelli contabili, si consente a ognuna delle banche interessate di acquistare coperture assicurative statali o pubbliche rispetto ai suoi diversi prestiti problematici. L’aspetto cruciale è che tali coperture assicurative vanno acquistate a prezzi di mercato. Ciò pone due difficoltà che tendono a rendere inefficace il compromesso. La prima difficoltà riguarda la (im)possibilità di fissare ex ante lo specifico prezzo di mercato per ognuna delle garanzie relative a ognuna delle molteplici tipologie di prestiti problematici, dal momento che l’effettiva compra-vendita di queste garanzie non avviene sul mercato. La seconda difficoltà è che, anche se risultasse possibile fissare le singole condizioni di equilibrio mediante un mark to model, il costo della garanzia di mercato su ciascuno dei NPL sarebbe esattamente uguale all’aumento rispetto al prezzo che sarebbe fissato dalla transazione di mercato senza garanzia fra banca e SPV.
La necessità di una garanzia statale
Per uscire dal circolo vizioso descritto è necessario introdurre una garanzia statale che consenta, seppur in forme indirette, di sostenere i prezzi di vendita dei prestiti problematici. In tal modo, anche i gruppi bancari italiani più fragili potrebbero cedere una parte delle loro diverse tipologie di prestiti problematici a prezzi più vicini a quelli contabili e, se necessario, potrebbero ricorrere a operazioni di ricapitalizzazione senza dover agire in condizioni di emergenza.
La nostra proposta prevede di fare ricorso a molteplici SPV dedicati all’acquisto dei prestiti problematici. Questi SPV dovrebbero usufruire di un sistema di incentivi attraverso l’applicazione di due livelli di garanzia: uno da parte delle banche stesse e un secondo – di ultima istanza – da parte dello Stato. All’atto di ciascun acquisto di tranche con diversa seniority dei prestiti bancari problematici, gli SPV beneficerebbero di una garanzia da parte di ognuna delle banche coinvolte per la copertura – fino a limiti prefissati – di eventuali perdite in cui potrebbero incorrere a causa di una differenza positiva fra i costi sopportati per l’acquisto di ciascuna tranche e i ricavi indotti dalla successiva, graduale e parziale riscossione di tale tranche presso il mutuatario originario. Inoltre, essi beneficerebbero della garanzia di un back stop pubblico qualora singole banche non fossero in grado di ottemperare alla garanzia fornita: lo Stato o un suo agente si impegnerebbe a garantire, anche in questa eventualità sfavorevole, la copertura fino agli specifici limiti prefissati mediante la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà.
L’insieme della proposta implica quindi: (a) un sostegno ai prezzi di vendita di ciascuna tranche di prestiti problematici, in grado di renderne conveniente la liquidazione anche da parte delle banche più fragili; (b) la possibilità di non ricorrere al bail-in. Il punto (b) si fonda sulla convinzione che gli aiuti di stato di ultima istanza, previsti dalla nostra proposta, siano compatibili con il Trattato TUEF (Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea) e non richiedano quindi l’applicazione dei meccanismi di risoluzione previsti dall’Unione bancaria.
Aiuti di Stato
Prima di entrare nei dettagli analitici della proposta, è essenziale giustificare l’ultima affermazione fatta. A nostro avviso la grave tensione, che si è verificata sui mercati finanziari la settimana scorsa e che ha coinvolto le banche italiane in modo non giustificato da mutamenti nelle loro precedenti condizioni di solidità patrimoniale, indica la presenza di condizioni di instabilità di natura sistemica tali da giustificare una riconsiderazione, da parte della Commissione europea, delle modalità di applicazione della disciplina degli aiuti di Stato alle banche. Va ricordato, al riguardo, che l’articolo 45 della Comunicazione della Commissione europea, appunto relativa all’applicazione dal 1 agosto 2013 delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria (la cosiddetta “Comunicazione sul settore bancario”), prevede la possibilità di derogare alle nuove regole relative alla risoluzione delle banche qualora l’attuazione di queste misure metta in pericolo la stabilità finanziaria o determini risultati sproporzionati.
Ciò è già accaduto all’inizio della crisi finanziaria internazionale del 2007-‘09, quando la Commissione adeguò le tradizionali modalità di applicazione del controllo relativo agli aiuti di Stato al mutato contesto economico, introducendo temporaneamente elementi di maggiore flessibilità per assicurare la salvaguardia della stabilità del sistema finanziario. Il TUEF prevede: all’articolo 107, paragrafo 2, lettera b che si debbano considerare compatibili gli aiuti erogati per “ovviare ai danni arrecati da … eventi eccezionali”; all’articolo 107, paragrafo 3, lettera b che sia consentito alla Commissione di considerare compatibili gli aiuti “destinati a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”. Tale seconda disposizione ha costituito la base giuridica, utilizzata dalla Commissione nel corso della crisi, per adeguare le modalità di controllo della crisi bancaria europea (e, solo in minima parte, italiana) nell’interesse generale del sistema.
Coerentemente con questa impostazione e a partire dal 2008, la Commissione ha emanato varie Comunicazioni che tenevano conto del mutare delle condizioni di contesto economico e finanziario. Essa ha dapprima reso più flessibili, fino all’estate del 2013, e poi progressivamente più rigidi i criteri di valutazione degli aiuti di Stato al settore bancario, con l’obiettivo di tornare, al termine delle turbolenze, a criteri di valutazione degli aiuti da applicare in modo stabile. E’ in tale contesto che si inserisce la Comunicazione del luglio 2013. In quest’ultima Comunicazione la Commissione ha annunciato che non avrebbe più considerato compatibili aiuti di Stato per ricapitalizzazioni bancarie che non poggiassero su un preventivo burden sharing a carico degli azionisti e dei creditori subordinati.
Gli eventi recenti, che hanno comportato una grave volatilità nelle quotazioni di alcune banche italiane in un più generale contesto di flessione dei corsi azionari, configurano una minaccia oggettiva rispetto alla stabilità del nostro settore bancario e – di conseguenza – di quello europeo. Per giunta, l’instabilità non deriva da un peggioramento medio nella qualità dei bilanci bancari o da nuove perdite di singole banche italiane, bensì dall’applicazione del burden sharing a quattro banche regionali e da segnali – reali o percepiti – provenienti dalle autorità europee di vigilanza ed erroneamente interpretati dal mercato come l’avvio di un nuovo esercizio di valutazione degli attivi o di richiesta di aumento degli accantonamenti sui crediti problematici. In sostanza, pur essendo la situazione delle banche italiane in linea con i requisiti prudenziali, si è realizzata una serie concatenata di eventi che ha destabilizzato gravemente i mercati. Il fatto che l’ondata di vendite azionarie sia poi rientrata non implica che non possa ripetersi; la fragilità, da cui è nato il recente shock, permane e può dar luogo a nuove turbolenze.
Nelle circostanze dette sarebbe ragionevole, pienamente giustificabile e in linea con l’approccio seguito sinora nelle situazioni di emergenza, concordare con la Commissione un nuovo strumento giuridico di garanzie pubbliche di ricapitalizzazione, utilizzabile entro una finestra temporale limitata e applicabile a tutte le banche europee che vengano a trovarsi sotto attacco e che siano – perciò – in condizioni di non sostenere gli impegni assunti rispetto al processo di cartolarizzazione. L’attivazione di questo strumento dovrebbe escludere, fino alla normalizzazione della situazione, l’applicazione del bail in alle singole banche che lo utilizzano. Un processo di bail in tenderebbe, infatti, ad avere un impatto destabilizzante a livello di sistema.
Allegati: NPL-liquidazione.pdf