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Banche, troppo debole l’innovazione tecnologica

Senza indulgere in noiose definizioni, competizione e innovazione tecnologica sono intuitivamente elementi interdipendenti di ogni contesto produttivo dinamico. L’obiettivo di emergere con successo in ambiente concorrenziale stimola l’innovazione, l’innovazione aumenta i caratteri concorrenziali del settore in cui si origina. La positività del legame si misura dall’aumento della produttività dei fattori impiegati.

Negli anni più recenti il nostro paese è stato un terreno poco fertile per questa relazione, a causa di politiche industriali incerte, se non assenti, e dei pochi “enzimi” introdotti dagli investimenti esteri. Il tema della trasformazione digitale del paese ha ora iniziato ad attirare l’interesse di importanti operatori internazionali, spinti da una politica più determinata del governo in carica e dalla prospettiva che anche l’Italia sarà massivamente coinvolta in questo processo di rinnovamento.

Anche il sistema bancario italiano ha necessità di adeguarsi, come si è portati a ricavare dal recente rapporto annuale ABILAB, dal titolo “Scenario e trend del mercato ICT per il settore bancario”. Dandone una lettura critica, le debolezze che emergono sono la frammentazione e l’indulgere in politiche autoctone, che impediscono di cogliere l’innovazione tecnologica nel suo pieno dispiegarsi. Ecco qualche elemento a sostegno di questa tesi.

Il Total Cost of Ownership (TCO) annuo dell’informatica per il sistema bancario italiano assomma per il 2014 a 3,7 mld di euro, cifra che, seppure in leggera ripresa rispetto all’anno precedente, è ancora inferiore a quella del 2011, anno in cui era intorno ai 4 mld. Qualche segnale positivo proviene dall’analisi di prospettiva, che mette comunque in luce la minore attitudine a far crescere la spesa per l’informatica da parte delle banche di più ridotte dimensioni.

Nel complessivo ammontare della spesa ICT, consumi e investimenti non sono poi facilmente distinguibili, perché manca una rilevazione industriale dei costi (e dei ritorni) dell’automazione sia nei bilanci sia nella reportistica verso le authority.

Le priorità sono individuate dai partecipanti all’indagine in ben 38 attività diverse (segnale inequivocabile di dispersione), con prevalenza per la dematerializzazione dei processi amministrativi, per i progetti di CRM, di multicanalità e di offerta di servizi via Internet. Le iniziative, ordinate in base al criterio del ritorno presunto della spesa e dell’impatto sul business, sono per la quasi totalità riconducibili ad applicazioni di front-end, per renderne più accattivante l’uso da parte degli utenti.

Lascia perplessi che il rinnovamento delle applicazioni di core banking non attiri più di tanto né le banche né i produttori di servizi, sebbene se ne riconosca l’elevato impatto, a medio termine, sul cambiamento del business.

Unendo queste risultanze a quelle di altre inchieste, si riscontra frammentazione anche nel sourcing, con le grande banche concentrate in sistemi “in casa” (ma vi è, tra queste, anche chi opta per sistemi misti) e la restante parte della domanda esternalizzata verso sette outsourcer.

In alcuni gruppi bancari, le varie componenti adottano sistemi informatici di outsourcer diversi, rinunciando a politiche di governo unitarie delle risorse tecnologiche. Anche i primi casi di banca digitale si rivolgono a soluzioni tecnologiche autonome rispetto a quelle delle capogruppo, le cui piattaforme sono ritenute poco adatte a gestire questa novità.

Non mancano infine banche di minori dimensioni che mantengono il governo dei sistemi presso di sé, sottovalutando le benefiche ricadute della esternalizzazione. Venendo agli outsourcer, il fatturato complessivo annuo non supera il miliardo di euro e, nemmeno sotto il profilo societario, emerge un modello unico di governance, pur prevalendo la forma consortile: tre fornitori fanno capo al movimento delle banche cooperative, a testimonianza che la frammentazione dei servizi informatici riguarda anche questo omogeneo modello di banking.

Pochi outsourcer offrono poi servizi professionali aggiuntivi a quelli di ICT (quali consulenza, formazione, controlli di compliance e di audit, servizi di pagamento), ricavandoli dal patrimonio informativo gestito. È indice di frammentazione anche l’assenza di un’associazione di categoria, per affrontare problemi comuni, discutere le direttrici della tecnologia e presentarsi unitariamente alle autorità di settore.

E ciò, nonostante che queste ultime abbiano assunto dallo scorso anno poteri di verifica diretta sul loro operato, in nome della supervisione dei rischi operativi e della qualità dei dati prodotti. Questa parcellizzazione incentiva per lo più politiche concorrenziali basate sui prezzi, che, in presenza di sistemi informatici ormai ammortizzati, continuano ad assicurare margini positivi, ma presentano nel contempo poca propensione al cambiamento. I bilanci degli outsourcer degli ultimi anni fotografano una favorevole condizione finanziaria a riprova della ridotta attitudine a nuovi investimenti, mentre mancate aggregazioni in funzione di maggiori economie di scala sono presumibilmente da attribuire a questioni di governance societaria.

Ora, se questa rappresentazione coglie i punti essenziali della situazione, la questione si sposta sui fattori sui quali agire, per un adeguato supporto dell’informatica alla ripresa del business bancario in Italia. La ridotta spinta proveniente dai fattori endogeni indirizza l’attenzione verso i propulsori esterni del cambiamento. Questi sono, da un lato, la normativa di vigilanza, dall’altro l’interesse di operatori esteri che, dall’arretratezza relativa del sistema bancario italiano, colgano opportunità di investimento.

Sul primo punto, le iniziative delle autorità nazionali, sulla scorta di quelle europee e internazionali, avanti accennate, debbono tradursi in altre più nette prese di posizione, con indicazioni in materia di governo dei rischi operativi riconducibili a un’insufficiente evoluzione tecnologica, creando un contesto normativamente più dinamico di incentivi/disincentivi.

In specie in presenza di aggregazioni tra banche, che si produrranno presto, l’integrazione dei sistemi informatici di gruppo dovrebbe divenire condizione sine qua non, con modalità, tempi e costi di realizzazione inseriti nei relativi piani industriali di fusione. Stessa linea andrebbe seguita fin da subito nei riguardi del gruppo bancario cooperativo, voluto dalla recente riforma.

L’obiettivo è quello di incidere sulla produttività bancaria che si presenta ridotta e con un alto grado di dispersione intorno alla media.

Solo per dare un’idea della situazione, rispetto al dato di 11 milioni di euro di prodotto bancario per addetto, vi sono banche più virtuose che mostrano valori anche superiori ai 15 milioni e molte che non arrivano a 5 milioni. È difficile che queste ultime abbiano concrete probabilità di restare sul mercato in siffatte condizioni di inefficienza. Il dato di sistema più eclatante rimane quello del numero degli sportelli bancari per abitante (52 ogni 100.000), che ci vede al primo posto in Europa.

Il punto rappresentato invece dall’interesse di operatori esteri verso il nostro sistema deve risolvere la questione dell’adattamento delle piattaforme alle specificità del contesto normativo e operativo italiano, cosa che ha finora rappresentato una vera e propria barriera all’entrata. A questo problema possono rispondere scelte di localizzazione informatica di sistemi internazionali tecnologicamente più evoluti (e quindi maggiormente performanti e flessibili) alle specificità rappresentate, solo a titolo di esempio, dalle complessità fiscali, dagli adempimenti di reporting verso le autorità di settore, ovvero da alcune modalità di business presenti solo nel nostro paese.

Forme di collaborazione con grandi produttori di sistemi informatici bancari, cui fornire le conoscenze funzionali del nostro complesso apparato, possono aprire il mercato a soluzioni meno autoctone e di conseguenza meno costose, oltre che tecnologicamente più evolute, come sono al momento le cosiddette architetture service oriented.

Alcune forme di partnership vedono l’avvio, come nel caso dell’accordo, di cui è stata data notizia in questi giorni, tra Oracle e Cabel per un progetto congiunto di localizzazione del core banking Oracle FLEXCUBE, già in uso presso 600 banche nel mondo. L’obiettivo è di approntare una piattaforma innovativa e flessibile, già leader sui mercati internazionali, per contribuire in maniera decisiva alla sfida della digitalizzazione, rinnovando le principali applicazioni gestionali, quali anagrafe, conti correnti, depositi, crediti, pagamenti, contabilità e così via.

Il coinvestimento può rappresentare una modalità sostenibile anche dal punto di vista economico/finanziario, a condizione che se ne colgano le implicazioni anche sotto il profilo organizzativo, governando adeguatamente grandi progetti come sono da considerare, per ogni outsourcer, quelli sopra menzionati.

Al di là dei vantaggi che il successo di simili iniziative potranno portare alle parti direttamente interessate, l’opzione assume valenza per l’intero mercato ICT bancario. Siamo infatti convinti che questa novità possa contribuire a distinguere più chiaramente il ruolo che debbono avere le case di software, impegnate nel costante rinnovamento tecnologico delle piattaforme, da quello dei fornitori di servizi, conoscitori dei requisiti funzionali e, quindi, dei fabbisogni del sistema bancario.

Le prospettive saranno poi tanto più solide quanto più i service provider nazionali sapranno sfruttare i patrimoni informativi, prodotti e gestiti secondo i migliori standard dell’industria informatica, passando ad un’offerta più ampia e qualificata di servizi, in termini di consulenza per il governo dell’impresa bancaria e di rinnovamento delle relazioni banca-cliente, nelle sue sempre più complesse necessità.

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