Negli ultimi giorni il sistema bancario italiano è tornato al centro dell’attenzione. Due le notizie che hanno determinato questo nuovo interesse. La prima è stata la sentenza dei giudici europei con la quale, dopo quattro anni, è stato accettato il ricorso presentato dal nostro paese e bacchettata la commissaria europea per la concorrenza che, impedendo l’intervento del Fitd, ha contribuito a determinare profonde perdite non solo economiche ma anche di reputazione per il sistema bancario italiano. Un errore di cui, per dolo o insipienza, non sembrano ancora essere consapevoli né la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager (Danimarca) né il vicepresidente della commissione europea Valdis Dombrovskis (Lettonia), provenienti entrambi da paesi satelliti della Germania. La seconda è, invece, la posizione espressa dall’Ocse nel rapporto sull’Italia, dove si sottolinea la necessità di portare a compimento la riforma Renzi sulle Banche Popolari, un giudizio che non tiene minimamente conto del fatto che tale riforma attualmente è ancora al vaglio della Corte di Giustizia Europea per i profili di diversità che tale riforma contiene tra norme nazionali e sovranazionali. Senza contare che continuare a smantellare il presidio territoriale delle banche locali, come avverrebbe con il completamento della riforma, non si vede come possa essere di aiuto alla ripresa economica del paese e al suo tessuto di piccole e medie imprese che rappresentano il 70 per cento del valore aggiunto privato.
Proprio per questo appare ancora più stridente quanto sta avvenendo in Germania con la fusione tra Commerzbank e Deutsche Bank (lo Stato è presente con una quota del 5 per cento di Commerzbank e sta svolgendo un ruolo attivo nell’operazione) e quanto riportato dalle agenzie di stampa su un’altra operazione che, sempre in Germania, vede molto attive le istituzioni pubbliche, questa volta locali, con il Lander della Sassonia-Anhalt che ha stanziato quasi 200 milioni di euro per il salvataggio della Norddeutsche Landesbank, di cui detiene il 5,6 per cento del capitale.
Nel complesso ci troviamo dinanzi a due situazioni, quella italiana e quella tedesca, che sembrano rientrare nel classico caso dei “due pesi e due misure” e che dovrebbero portarci ad essere ancora più incisivi all’interno delle istituzioni dell’Unione europea per difendere i nostri interessi, così come sembra che stiano facendo efficacemente i tedeschi. È il caso di ricordare come proprio prima dell’introduzione del bail-in, magicamente, la Germania abbia agito per salvare il proprio sistema bancario, pesantemente compromesso, mettendo a disposizione, nel corso degli anni, risorse pubbliche per un valore complessivo di quasi 230 miliardi di euro (un valore pari al 7,2 per cento del PIL tedesco) rendendo la Germania il primo paese dell’eurozona in termini di spesa. Il dato italiano, tanto per comprendere meglio gli ordini di grandezza di cui si parla, è stato di 13 miliardi di euro, lo 0,8 per cento del PIL nazionale.
A ciò si aggiunge anche un’ulteriore peculiarità del sistema bancario tedesco, quello delle banche locali pubbliche (contrariamente all’Italia dove le banche sono tutte private), le Landesbank e le Sparkasse, che proprio per iniziativa della Germania sono state tenute fuori dal raggio d’azione della vigilanza della BCE e che continuano ad operare seguendo logiche di tipo politico e non prettamente economico, come sottolineato anche da un report della stessa BCE a firma dell’economista Alexander Popov che evidenzia l’aumento, registrato dopo le elezioni, del 42 per cento dell’esposizione sui titoli di stato regionali di queste banche. Il tutto mentre si continua ancora a dibattere sulla inopportunità delle banche italiane di avere in bilancio titoli di stato del proprio paese. Se si considera che in Germania l’insieme delle banche regionali e commerciali, delle Landesbank, delle Sparkasse e degli istituti di credito cooperativo locali – come risulta dal supplemento all’ultimo bollettino statistico della Bundesbank – arriva ad essere di oltre 1.300 unità su un totale di circa 1.500 istituti di credito (in Italia le banche nel complesso sono 650, meno della metà), ecco allora che si comprende meglio la portata del fenomeno di cui si discute e come la protezione che la politica tedesca offre a tali istituti sia quasi un unicum all’interno dell’unione bancaria.
Appare poi singolare l’ossessione del parlamento tedesco a spostare l’attenzione verso le banche italiane, viste le ripetute richieste d’informazione che vengono inviate alla BCE, l’ultima dei giorni scorsi e relativa al Monte dei Paschi di Siena, Carige e Banca Popolare di Bari, in cui si chiedono delucidazioni sulle “notizie preoccupanti” relative allo stato di salute delle banche italiane entrando nel merito anche delle decisioni della Banca Centrale Europea sulle misure adottate. Sarebbe interessante sapere cosa risponderebbero a Francoforte se un’analoga richiesta fosse avanzata dalle istituzioni italiane e riguardasse il sistema bancario tedesco, l’esposizione delle banche maggiori in prodotti derivati e le difficoltà che sembrano attraversare gli istituti locali e che viene superata solo attraverso l’azione diretta dello stato centrale o degli enti locali, in nome di una stabilità finanziaria che sembra valere solo in determinate circostanze o ambiti geografici.
Non c’è che dire, la confusione organizzata sembra regnare sovrana in Europa. Ma, purtroppo, non si tratta di confusione, bensì della dimostrazione, ancora una volta, di come le regole esistenti vengano interpretate e applicate in funzione dei rapporti di forza in campo e di come le istituzioni europee risultino essere intransigenti solo con alcuni. Istituzioni super partes, quali dovrebbero essere quelle dell’unione, continuano ad operare con valutazioni differenti a beneficio di alcuni e a scapito di altri segnando così il reale tramonto dell’ideale europeo. Il problema, che per fortuna non è più un tabù, è evidente ormai a tutti. Di certo, non può protrarsi ancora a lungo, vista anche la successione reiterata di contesti problematici nei sistemi bancari degli altri paesi UE. Alla base di questa diversità di trattamento c’è, in fin dei conti, un diverso modo di intendere l’europeismo che da parte di alcuni è assolutamente opportunistico. Non certo così per gli italiani che ancora oggi e malgrado tutto, si mostrano essere i più europeisti, visto che hanno immolato sull’altare dell’integrazione il 20% della propria industria.
[L’autore è segretario generale dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari]