La regolazione del sistema finanziario europeo, in particolare quella dell’eurozona, è stata radicalmente riformata dopo il 2012. Nel nuovo sistema hanno assunto un ruolo centrale le regole sul burden sharing nel controllo degli aiuti di Stato e le regole sul bail-in contenute nella direttiva BRRD, entrambe volte ad assicurare che le perdite delle banche in difficoltà siano sopportate in primo luogo dagli azionisti e dai creditori delle banche, piuttosto che dai contribuenti.
In effetti, tra il 2008 e il 2014 i salvataggi delle banche a carico dei bilanci pubblici (i cosiddetti bailouts) hanno rappresentato più del 3 per cento del Pil in undici Stati membri, con punte superiori al 18 per cento per Grecia, Cipro e Slovenia, giungendo sino al 31 per cento in Irlanda. Sotto gli auspici del G 20 e del Financial Stability Board, su entrambe le sponde dell’Atlantico si è diffusa tra i policy makers la convinzione che occorresse porre un freno ai bail-outs. Non è solo questione di contenere l’impatto sui bilanci pubblici: se vi è l’aspettativa che le banche in difficoltà saranno comunque salvate a carico dei contribuenti si distorcono gli incentivi del management, incoraggiando politiche di investimento eccessivamente rischiose (il cosiddetto ‘azzardo morale’).
A partire dall’agosto 2013 la Commissione europea ha iniziato a condizionare la possibilità degli Stati membri di attribuire aiuti pubblici alle banche a un preventivo burden sharing a carico di azionisti e creditori subordinati. La svolta è stata annunciata con una comunicazione (la ‘Banking Communication’), che non è giuridicamente vincolante per gli Stati membri ma è importante perché indica come la Commissione intende applicare le regole sugli aiuti di Stato contenute nel Trattato.
Successivamente, la direttiva BRRD ha introdotto per le banche regole sulla svalutazione degli strumenti di capitale e sulla conversione dei titoli di credito in azioni che coinvolgono nella risoluzione delle crisi tutti i creditori, esclusi i depositanti che sono protetti sino a 100.000 euro. Un’analoga disciplina è contenuta nel regolamento che istituisce, per i paesi dell’eurozona e quelli che intendono aderire, il Meccanismo unico di risoluzione. In particolare, la concessione di forme di sostegno pubblico alle banche viene subordinata al preventivo bail-in di azionisti e creditori.
Le regole sul burden sharing e sul bail-in, pur rispondendo all’importante obiettivo di assicurare corretti incentivi nella gestione delle banche, vanno utilizzate con cautela perché, incidendo sulle aspettative degli investitori, possono creare una fuga dall’investimento nel settore bancario, con il risultato di mettere a rischio anche banche del tutto solvibili e destabilizzare l’intero sistema. Nell’applicazione di tali regole, quindi, occorre tenere conto non solo della situazione della singola banca ma più in generale del contesto economico in cui tale situazione si inserisce.
La nuova regolazione ha richiesto alle banche un imponente lavoro di ricapitalizzazione e molti istituti hanno intrapreso profonde ristrutturazioni per rafforzarsi e tornare a svolgere il loro ruolo fondamentale di finanziamento dell’economia reale. Opportunamente queste ristrutturazioni vengono compiute, laddove possibile, esclusivamente tramite il ricorso a capitali privati (come avviene ad esempio con il fondo Atlante). Non si può però dare per scontato, nell’attuale situazione economica, che le risorse private siano sufficienti a finanziare le esigenze di ricapitalizzazione di un ampio numero di banche.
L’eurozona è più esposta a crisi di fiducia e a shock di liquidità rispetto a un “normale” sistema bancario per il fatto che la condivisione della valuta non è accompagnata da un fiscal back up comune. Alla radice, il problema sorge perché, diversamente da quanto avviene negli Stati nazionali, nell’eurozona manca un sistema di condivisione dei rischi per il debito sovrano e, di conseguenza, il circolo vizioso tra crisi del debito sovrano e crisi bancarie è sempre in agguato. In teoria l’Unione bancaria avrebbe dovuto risolvere il problema, ma la costruzione resta incompleta.
In assenza di un sistema sovranazionale di assicurazione dei depositi, resta un elevato rischio di shocks idiosincratici che coinvolgono un’ampia parte del sistema bancario di uno Stato membro. Gli episodi di acuta instabilità dei mercati dei titoli bancari del febbraio 2016 ne forniscono una prova evidente. La situazione è resa particolarmente complicata dall’eredità della crisi (quota elevata di non performing loans e scarsa profittabilità del settore bancario, su cui incide anche la politica superespansiva della BCE). Lo spettro dell’instabilità sarà definitivamente eliminato solo quando sarà portata a termine una sostanziale ricapitalizzazione del sistema bancario.
A questo fine, data l’entità delle risorse necessarie, potrebbero rendersi necessari temporanei interventi di sostegno pubblico al rafforzamento del capitale. Questi interventi potrebbero essere strutturati come misure temporanee di ricapitalizzazione pubblica a condizioni di mercato, che lo stesso settore bancario dovrebbe ripagare una volta superata la fase di carenza di liquidità, evitando così un onere per i bilanci pubblici. Ci sono numerosi esempi a cui fare riferimento, tra cui in primis il piano Paulson con cui nel 2008 il Governo degli Stati Uniti è intervenuto temporaneamente nel capitale delle banche, ricavando alla fine un utile netto dall’operazione.
Ma se, in base alla Banking Communication e alla BRRD, il sostegno pubblico richiede sempre come precondizione il bail-in dei creditori, questo tipo di misure non può essere inserito nell’agenda. Solo parlarne potrebbe scatenare il panico tra gli obbligazionisti, finendo per mettere in difficoltà banche sostanzialmente solide. C’è allora da chiedersi se l’attuale disciplina europea non sia finita per diventare una trappola: se lo Stato non interviene, il processo di rafforzamento del sistema necessario per sostenere la ripresa dell’economia non procede con la necessaria velocità; se lo Stato interviene, scatta la fuga dei privati dalle banche.
Guardando bene alla disciplina europea, tuttavia, si scopre che un’interpretazione meccanicistica delle regole sul bail-in dei creditori non è l’unica interpretazione possibile. Anzi, probabilmente è un’interpretazione scorretta, che potrebbe essere contestata davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Anzitutto, per quanto riguarda le regole sugli aiuti di Stato, l’articolo 107, paragrafo 3, lettera b, del Trattato consente di considerare compatibili con il diritto europeo gli aiuti necessari a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro. Perché una misura di sostegno pubblico sia compatibile, ciò che occorre è che sia necessaria e non vada oltre quanto strettamente necessario a correggere il fallimento del mercato. La stessa comunicazione della Commissione riconosce che il burden sharing, pur utile per educare il management delle banche, non viene richiesto se pone a rischio la stabilità finanziaria o se è sproporzionato rispetto all’obiettivo.
In secondo luogo, anche le regole della BRRD lasciano (limitati) spazi di flessibilità, non richiedendo il bail-in per gli aiuti temporanei a banche solvibili effettuati a fini di ricapitalizzazione precauzionale purché l’opportunità della ricapitalizzazione sia riconosciuta anche dalle autorità di supervisione e per qualche motivo il finanziamento da parte del mercato non risulti sufficiente. Pertanto, qualora si presentasse questa situazione, un intervento di sostegno pubblico sulla linea del piano Paulson e adeguatamente disegnato (in particolare, assicurando che gli aiuti non vengano utilizzati per coprire le perdite) potrebbe essere considerato compatibile con le regole
europee senza fare scattare il bail-in.
Si potrebbe, tra l’altro, ipotizzare un utilizzo a fini di temporanea ricapitalizzazione prudenziale anche delle risorse dell’European Stability Mechanism, la cui disciplina già prevede la possibilità di interventi a sostegno del capitale delle banche.