Il livello delle sofferenze bancarie, giunte a lambire i 200 miliardi di euro secondo Bankitalia, ha sfiorato il 10 % del debito pubblico italiano. Ciononostante, questa montagna unica nel panorama della Ue non ha ancora stimolato una qualche riflessione autocritica da parte del sistema bancario. Paradossale e impudico nei confronti di ogni assennato cittadino è il comportamento autoassolutorio del sistema bancario, che si appella alla crisi “che sta intorno a noi”, o che accusa del disastro bancario il bail-in dichiarato con solennità anche anticostituzionale.
Nulla si racconta sulla errata valutazione dei più diversi rischi associati, ad esempio, ai derivati (vedi il caso tedesco, che invece lo ammette) e a quelli assai più diffusi che hanno portato alle sofferenze. Notoriamente si tratta del rischio di mercato (vedi il settore delle costruzioni); di quello di controparte (ad esempio finanziamenti dati con leva al 100%); di quello di interesse e di cambio, di norma associati ai derivati di copertura; di quello operativo (modelli matematici per la valutazione dell’assorbimento di capitale) e, più in generale del modello di business della banca universale che lega il rischio della tradizionale banca commerciale a quello della banca d’investimento.
Una riflessione non autoassolutoria che stimasse il peso che la valutazione errata di ogni singola categoria di rischio ha portato alla montagna delle sofferenze aiuterebbe le banche stesse ad adottare le necessarie riforme e procedure interne connesse alla valutazione di ogni singola componente di rischio. Ovvero, si dovrebbe con onestà ammettere che “i guai li abbiamo creato anche noi membri del top management bancario, assistiti dai più diversi Cda, spesso dormienti e da consulenti a caccia di compensi”.
In siffatto contesto, in cui continua a operare anche il sistema bancario ombra (lo shadow banking di cui non più si parla), ritenere che il più acuto fallimento del mercato finanziario (bancario e mobiliare) dal dopoguerra ad oggi possa essere risolto dal mercato finanziario stesso è un evidente non senso, che dovrebbe essere riconosciuto anche dai più convinti chierici sostenitori della ideologia che postula la capacità dei marcati finanziari di autoregolamentarsi ed autoriformarsi.
Dovrebbe pertanto essere condiviso da ogni ragionevole policy maker (anche tedesco) che, constatato il fallimento del mercato finanziario, non può essere che la mano pubblica a rimediare al fallimento del mercato stesso. Una mano pubblica tuttavia che non dovrebbe limitarsi, se necessario, alla sempre implorata socializzazione delle perdite delle banche private, ma cogliere l’occasione per una riflessione finalizzata a rimediare ad alcuni problemi da lungo tempo lasciati irrisolti.
Ad esempio, siffatta riflessione potrebbe condurre l’azione della policy maker alla separazione della banca commerciale dalla banca d’investimento e alla progressiva concentrazione societaria delle banche di più modeste dimensioni che si sono avventurate irresponsabilmente nel campo rischioso dei “fare finanza”.
Ma si deve riflettere sul fatto che anche i comportamenti degli assetti proprietari che guidano le banche italiane e che hanno perseguito con tenacia sia la politica del debito proprio (le obbligazioni bancarie, con prospetti informativi depurati dagli “scenari probabilistici”), sia quella dei prenditori di fondi sovente privilegiati non per merito di credito, ma per appartenenza a potenti gruppi economici supposti solvibili o al territorio (che generano le sofferenze bancarie) dovrebbero essere presto riformati e rivisti, per non tardare a dare ragione a quanto osserva al riguardo la BRI-Banca per i regolamenti internazionali (relazione di giugno 2016); ovvero che si deve “abbandonare il modello di crescita trainata dal debito che ha agito da surrogato politico e sociale” (p.3). Surrogato che nel caso dell’Italia, è stato abbondantemente distribuito dalle banche.
Ma vi è di più. Se la crisi bancaria degli anni trenta fu dovuta all’intreccio banche e imprese, la grave crisi di oggi è largamente dovuta all’intreccio tra politica (meglio i partiti politici) nel condizionamento della nella gestione delle banche italiane. I pletorici consigli di amministrazione della banca italiane (sovente frutto di una meccanica applicazione di manuale Cencelli bancario), spesso pari a un multiplo di una squadra di calcio, sono il risultato non soltanto dell’assenza di un “nucleo duro” di azionisti di comando, ma della presenza di “nocciolini” (vedi le fondazioni bancarie) in rappresentanza della deleteria ideologia del legame con il territorio che, a sua volta si intreccia con le domande dell’incombente ceto politico e sindacale.
Imporre alle fondazioni bancarie la cessione delle partecipazioni bancarie potrebbe scioglier il legame tra politica e banca. Eliminare dal testo unico di finanza le legislazioni i speciali – disperatamente difese dalle singole corporazioni – che riguardano le banche popolari (anche quelle trasformate in spa) e le banche di credito cooperativo, separare la banca commerciale da quella d’investimento, imporre per legge gli “scenari probabilistici” nei prospetti informativi. Potrebbero essere i primi passi per cominciare a rimediare ai problemi da troppo tempo rimasti irrisolti.