Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, fa bene a stimolare le banche italiane a fare di più, sia nel taglio dei costi e delle sofferenze, sia nella crescita dei ricavi e degli utili e nella offerta di una maggior trasparenza ma i numeri dicono che la svolta è già in corso.
Per la maggior parte delle banche la presentazione dei bilanci 2017 avvenuta nei giorni scorsi è stata la conferma che è cominciata una nuova era, nella quale le banche italiane sono diventate più solide, meno rischiose e nuovamente redditizie. Se n’è accorta anche la Borsa che in un anno ha segnato un rialzo dell’indice Ftse banche del 37,12 per cento. I numeri parlano chiaro.
Solo considerando le quattro banche più redditizie (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banco Bpm e Ubi) il monte profitti realizzato nel 2017 supera i 10 miliardi netti. In testa c’è Unicredit che, dopo lo spettacolare aumento di capitale da 13 miliardi in cui inizialmente non credeva nessuno, è tornata prepotentemente all’utile generando la bellezza di 5.473 miliardi di profitti netti, che impressionano se si considera che il 2016 si era chiuso con una perdita secca di 11,8 miliardi dovuta principalmente alle rettifiche.
Molto rilevante è anche il monte utili di Intesa Sanpaolo, che è in attivo da anni ma che nel 2017 ha raggiunto i 3,8 miliardi di euro, il più alto dal 2007, con una crescita del 23% rispetto al 2016, cosa che le permette di distribuire ancora una volta un ricco dividendo che porta il payout all’80% degli utili, il più elevato tra le banche italiane e tra i maggiori a livello europeo.
Bene hanno fatto anche le due principali ex Popolari, sia il Banco Bpm che Ubi, che sono uscite dal profondo rosso del 2016 con un consistente utile del 2017 e con il conseguente ritorno al dividendo. Nel primo anno di matrimonio tra il Banco Popolare e la Bpm, il gruppo bancario guidato da Giuseppe Castagna è passato da una perdita aggregata di 1,2 miliardi a un utile netto di 558 milioni di euro, grazie anche ai proventi incassati dalla vendita della Banca Aletti Gestielle a Anima Holding. A sua volta Ubi, che aveva chiuso il 2016 con una perdita di 830,2 milioni, ha messo a segno nel 2017 un utile contabile di 690,6 miilioni che, al netto delle componenti non ricorrenti legate all’acquisizione di Banca Etruria, Banca Marche e Carichieti, significa un utile netto di 188,7 milioni contro il rosso di 474,6 milioni dell’anno precedente.
E’ vero che il ciclo economico ha dato una mano ai bilanci delle banche ma se si considera che il margine d’interesse continua a soffrire i tassi bassissimi della Bce, il risultato raggiunto è molto rilevante, soprattutto se si tiene conto che l’impennata degli utili si basa principalmente sul boom delle commissioni (soprattutto del risparmio gestito) e su un deciso calo dei costi e delle rettifiche, che hanno accompagnato il drastico taglio degli Npl.
Fatti tutti i conti, gli utili netti generati dai quattro gruppi bancari più redditizi superano i 10 miliardi e promettono di mantenersi alti anche quest’anno.
Naturalmente non è tutto oro quel che luccica e le perdite dei tre gruppi (Mps, Carige e Creval) che hanno avviato tardi la ristrutturazione e l’opera di ripulitura dei bilanci sono ancora pesanti. Nel 2017 il Monte dei Paschi, che dà finalmente segni di risveglio, ha perso 3,5 miliardi, 332 ne ha persi il Credito Valtellinese e 291 ne ha persi Carige.
Ben venga,dunque, il recupero di redditività, ma sulle banche italiane c’è un grave pericolo che incombe e che al Forex di Verona il Governatore Visco ha ben evidenziato e cioè che l’Europa del Nord, andando oltre la prudenza del Comitato di Basilea, imponga regole restrittive a senso unico sui titoli di Stato detenuti dalle stesse banche disponendo limiti quantitativi o nuovi aumenti di capitale.
Dopo la politica dell’austerità, sarebbe un errore imperdonabile per l’Unione europea che finora ha preso di mira gli Npl delle banche italiane ma ha chiuso non due ma quattro occhi sulla mina vagante dei prodotti derivati delle banche francesi e soprattutto tedesche. “Modifiche del trattamento prudenziale dei titoli di Stato detenuti dagli intermediari creditizi, soprattutto se mal disegnate o mal calibrate, rischiano – ha infatti avvertito il Governatore – di essere controproducenti” e “specie in momenti di tensione a livello sistemico, possono finire col generare le crisi che vorrebbero evitare, inneascndo fenomani di contagio finanziario o alimentando movimenro speculativi”.
L’avvertimento di Visco è chiarissimo. Come ha acutamente notato Alessandro Graziani sul Sole 24 Ore c’è il rischio che nasca “la Yalta del sistema finanziario” e sarebbe ora che in vista delle prossime elezioni la classe dirigente – per non dire dei media, sempre pronti a guardare il dito senza vedere mai la luna e a credere che il problema dei problemi sia il caratteraccio di Matteo Renzi – se ne accorgesse. Per evitare sventure come quelle saggiamente evocate dal Governatore e in precedenza stagmatizzate da Mario Draghi, ci vorrebbe un governo che, anzichè subire i pericolosi sbandamenti sull’Europa ora della Lega e ora dei Cinque Stelle, avesse la forza e l’autorevolezza di farsi sentire a Bruxelles.
Leader come Gentiloni o Renzi per il centrosinistra o come Tajani per il centrodestra sarebbero certamente in grado di interloquire con Macron e con la Merkel ma ve li immaginate Salvini o Di Maio? Chi li ascolterebbe mai e prima che i due leader populisti avvistassero il pericolo, i buoi sarebbero già usciti dalle stalle. La maggior parte degli italiani e delle stesse forze politiche non lo sa, ma il futuro del Paese si gioca proprio su questo terreno e la sua chiave è nelle urne del 4 marzo. In bocca al lupo.