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Banche, il rischio operativo diventa la nuova frontiera?

Una buona gestione del rischio operativo potrebbe diventare un’occasione per distinguersi sul mercato del credito? E’ quanto sostiene la rivista inglese The Banker ma in Italia il rischio di credito è standardizzato. Il tema può però diventare attuale, a patto che la proporzionalità diventi reale.

Banche, il rischio operativo diventa la nuova frontiera?

Una buona gestione del rischio operativo rappresenta la nuova frontiera nel mercato creditizio? Potrebbe diventare un’occasione per tutti gli istituti bancari per distinguersi? A esserne sicuro è The Banker, il mensile di affari finanziari internazionali del Financial Times. In Italia, il tema non è all’ordine del giorno, tant’è che il rischio di credito è sempre più standardizzato tra la maggior parte delle banche che non lo considera una caratteristica distintiva sulla quale investire per conquistare nuove e maggiori fette di mercato. 

Ordinariamente è un dato tenuto in considerazione affinché resti all’interno dei parametri di sicurezza che soddisfano il regolatore ma, ad esempio, nelle presentazioni degli CEO agli analisti, il rischio operativo è soltanto menzionato. Al contrario, nel mondo anglosassone, si sta facendo lentamente strada l’idea di considerarlo un fattore, al pari di altri, da prendere in considerazione nelle strategie di mercato. Si sta, infatti, aprendo, nelle banche europee, la discussione tra chief information officer e responsabili della sicurezza sul dato che una buona azione antiriciclaggio e antifrode non è soltanto un vantaggio competitivo in termini di riduzione dei costi, perdite e vulnerabilità alle penali, ma ha anche un potenziale elemento di crescita dei profitti. 

Il ragionamento alla base di quest’idea è abbastanza chiaro: la sicurezza di una banca è quella dei suoi clienti e fornitori e viceversa. Se questi hanno in corso operazioni in perdita o in pericolo, allora, anche la banca è a rischio con la logica conseguenza che è principalmente nell’interesse di una banca offrire controlli di sicurezza come servizio ai clienti. Alcune banche europee stanno portando a conclusione questo discorso facendo pagare il servizio con l’obiettivo di trasformare un fattore di costo in un fattore di profitto e aumentando indirettamente la resilienza dell’intero sistema a fattori di pericolo esterno.

Gli stessi chief information officer lamentano, però, la scarsità di informazioni provenienti dalle forze dell’ordine e le difficoltà di comunicazione tra banche, autorità di regolamentazione e le stesse forze dell’ordine in generale. I regolatori, in sintesi, chiedono molto rigore alle banche relativamente ai loro rischi di credito e di mercato per quanto riguarda il capitale detenuto, ma – lamentano ancora gli chief information officer – quando si tratta di rischi operativi esiste un ampio margine di miglioramento, attraverso un lavoro di cooperazione tra soggetti diversi, molto sottovalutato. Dopo tutto – conclude The Banker – questa è la nuova frontiera. 

La discussione è sicuramente attuale e la teoria di fondo molto accattivante come è sicuramente vero che sono tanti, ancora troppi, i rischi legati ad incombenze legali e burocratiche che appesantiscono il lavoro di tutte le banche e che le probabilità di incorrere in frodi (interne o esterne alla banca) o irregolarità di esecuzione delle transazioni (clients, products, & business practice) sono ancora troppo alte. E’ proprio di ieri la notizia che i dati di tre milioni di utenti UniCredit sono stati violati da un accesso esterno non autorizzato, cosa molto preoccupante al di là dei danni che, in questo caso, non ci sono stati. E’ altrettanto vero che una discussione di questo genere non può non tener conto delle diversità strutturali esistenti nel sistema bancario tra attività di intermediazione più incentrata al sostegno all’economia reale in alcuni Paesi, come l’Italia, e quella maggiormente dedita ad operazioni di tipo finanziario-speculativo, in altri. 

Tenere conto delle dimensioni e della diversa vocazione o propensione degli intermediari finanziari è necessario non solo a garantire la libertà di azione a ciascun intermediario senza condizionarne negativamente l’attività, ma anche a non indebolire l’efficienza del mercato. La reale applicazione del principio di proporzionalità – come l’articolo 5 del Trattato sull’Unione Europea vorrebbe – è una necessità per far sì che i costi legati all’applicazione delle norme non siano sproporzionati rispetto ai benefici degli obiettivi. E’ possibile? Sì è possibile considerando soprattutto la particolarità dell’intermediazione orientata al sostegno delle aziende, in particolare PMI, e delle famiglie attraverso regole e vincoli opportunamente graduati in funzione del livello di rischio che l’azione di detti intermediari può sviluppare.  

Solo in questo modo, applicando realmente il principio della proporzionalità fin dalla definizione delle norme, sarà possibile una politica che trasformi il rischio operativo in opportunità per l’efficienza del mercato.

°°° L’autore è il Segretario Generale dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari

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