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Banche, ecco perché la tempesta non è ancora passata

Si calmano le vendite che hanno colpito alcune banche nei giorni scorsi. Banco Popolare addirittura rimbalza del 4,5%, Banca Carige respira con +0,13% e Bpm +0,20, mentre Mps è debole ma vicina alla parità -0,20%.

Ma la tempesta è tutto fuor che passata. E i prossimi mesi potrebbero portarci di nuovo sulle montagne russe. Dietro le vendite di questi giorni non un sell off irrazionale innescato da qualche grossa vendita effettuata dalle mani forti, e neppure semplici prese di beneficio amplificate dal caos delle valute emergenti. Le cause sono tutt’altro che transitorie e sono lì per restare ancora diverso tempo. Da un lato i problemi strutturali del sistema sono tutt’altro che risolti, dall’altro si entra nel vivo degli stress test e le banche patrimonialmente più deboli dovranno trovare risorse fresche.

I mercati segnalano il rischio di ingorgo nei prossimi mesi. La miccia è stata innescata dall’annuncio a sorpresa del Banco Popolare che chiederà 1,5 miliardi di euro dal primo di aprile e che ha voluto bruciare sul tempo gli altri concorrenti. Perché la lista degli aumenti bancari ai nastri di partenza, o meglio per ora ancora ai box, è lunga: Mps, che ha rinviato a giugno l’aumento di capitale da 3 miliardi concordato con la Commissione Europea indispensabile per rimborsare parte dei Monti bond ed evitare la nazionalizzazione e ha dato appuntamento a giugno, Bpm che è stata impegnata nell’inatteso e conflittuale cambio dei vertici ma per cui è ineluttabile un aumento da 500 milioni (annunciato da tempo e slittato già due volte), continuando con gli 800 milioni di Banca Carige , i 400 milioni della commissariata Banca Marche. E poi gli osservatori puntano il dito su Veneto Banca, la Bper, il Credito Valtellinese. Sette miliardi, solo quelli fino ad oggi previsti, che hanno innescato il fuggi fuggi dei mercati.

LA CRISI DEL MODELLO ATTUALE

Il primo problema è che le banche non sono più in grado di fare utili, intesi come profitti della loro attività caratteristica: fare banca, ossia raccogliere depositi ed erogare prestiti. I risultati sono stati ultimamente sostenuti in buona parte anche dalle partite straordinarie e dal miglioramento sulle perdite sui crediti. Il business bancario italiano si trova infatti un sistema economico in declino strutturale almeno da vent’anni, a cui si è aggiunta l’attuale crisi finanziaria, prima solo marginalmente (grazie al profilo tradizionale delle nostre attività bancarie), poi in tutta la sua forza con la crisi dell’Eurozona e dei debiti sovrani. Senza dimenticare le deboli prospettive economiche di crescita del Paese. Il tutto in uno scenario  di tassi di interesse ai minimi storici, e che promette di rimanere tale ancora per un po’ di tempo. Che non offrono prospettive particolarmente positive. Con una evidente paradosso, come ha sottolineato qualche tempo fa l’analisi della Fondazione Rosselli: per spingere i ricavi bisogna puntare su ricavi da servizi non legati al solo margine di interesse, come il risparmio gestito e i prodotti assicurativi, attività che però sono state dismesse nella crisi per fare cassa. Per intenderci, la caduta della redditività non è figlia solo dell’ultima crisi ma arriva da più lontano, da un modello di fare banca che spinto dai fasti degli anni del boom e della crescita si è gonfiato a dismisura moltiplicando sportelli e costi. Che ora richiedono una drastica dieta, in parte già avviata da diversi istituti. Non ha poi aiutato il vizio dei salotti e delle operazioni di sistema che ha bloccato le risorse delle banche in operazioni costose ma non motivate da logiche di core business. Qui la buona notizia è che un’inversione di tendenza è già iniziata, da Mediobanca a Intesa Sanpaolo.

Insomma, per riconquistare la redditività non basta un ritocco qua e là, ma le banche devono ripensare e rivedere tutto il loro modello di business, agganciando la rivoluzione dell’innovazione tecnologica. Un po’ più come Apple, per intenderci. Un processo né facile né veloce.

LA SPADA DI DAMOCLE DELL’ASSET QUALITY REVIEW

In questo scenario si inseriscono anche i cambiamenti normativi in corso a livello europeo che a novembre 2014 porteranno al varo della vigilanza unica nelle mani della Bce, primo tassello per l’Unione bancaria. Il percorso passa anche per la famosa asset quality review programmata dalla Bce che inizierà nei prossimi mesi: un’ampia analisi sulla situazione delle banche con l’obiettivo di ristabilire la fiducia nell’intero sistema, per contribuire alla sua normalizzazione e alla ripresa del credito ( a cui seguiranno tra l’altro gli stress test dell’Eba). E il risultato decreterà chi è in regola e chi invece deve correre ai ripari, ossia non è abbastanza patrimonializzato peri parametri decisi a Bruxelles. In questo caso le alternative non sono molte: le banche in questione o si fondono (ma non sempre due debolezze fanno una forza) o chiedono soldi agli azionisti. In caso contrario, la Bce ordinerà la chiusura di quelle che non sono in grado di stare in piedi.

Ma in questo scenario di bassa redditività e grande incertezza, chi vuole mettere i propri soldi nelle banche? Ecco che l’ingorgo di rischieste che ci si attende solleva dubbi sulla buona riuscita degli aumenti, in situazioni che già non brillano per chiarezza e che spesso dipendono da problemi che si trascinano da tempo. Con o senza stress test.  

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