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Banche e sindacato, è l’ora della cogestione

Le decisioni assunte dal Governo con il fondo Atlante per il risanamento del sistema bancario mettono in luce la gravità della situazione portando alla luce, se mai ce ne fosse stato bisogno, una delle cause della scarsa crescita del paese. Nella vita dei nostri istituti bancari sono accaduti episodi che poco tempo fa sarebbero stati impensabili. Il 2 aprile scorso l’assemblea dei soci del’Ubi ha consegnato la banca nelle mani dei fondi di investimento che hanno ottenuto il 51% dei consensi. La notizia, che ha avuto meno rilievo di quanto avrebbe meritato, segna una sconfitta clamorosa di quel particolare “capitalismo di relazioni” spesso in versione familiare.

Dopo le vicende del Monte dei Paschi e del sistema Etruria vengono al pettine le gravi anomalie di alcune grandi banche, popolari e non, di tutto il nord industrializzato ed “europeo” dove gruppi di soci, minoritari ma ben organizzati, hanno di fatto monopolizzato la gestione del credito in termini troppo spesso clientelari e in pieno conflitto di interessi. Basti ricordare l’erogazione di finanziamenti finalizzati ad acquistare quote o a sottoscrivere aumenti di capitale per coprire le perdite. Inutile ricordare che il valore dei titoli è crollato e i crediti degli istituti finiranno nei “not performing loan”.

Sono usciti con le ossa rotte molti dei figli e dei nipoti di quei capitani d’industria che nel dopoguerra contribuirono alla rinascita del paese e che avevano costruito il loro potere su una solida rete di relazioni politiche bipartisan. La stampa, più comprensibilmente quella locale, non ha mostrato una capacità e una volontà di indagine e di denuncia pari a quella delle grandi campagne di inchiesta nazionali o internazionali. Il cambiamento può avvenire affidandosi a forze esterne, come facevano principi e duchi degli antichi Stati Italiani, accettando il ruolo egemonica degli Stati Nazionali del tempo.

Oppure si può far leva su strumenti costruiti d’intesa con le Istituzioni della Ue, come sta agendo il Governo italiano. La morale però è semplice, chi non governa lascia inesorabilmente ad altri il compito di farlo. Ma cosa possono fare gli stakeholders, in primo luogo i lavoratori dipendenti, che rischiano di pagare un prezzo altissimo? È necessaria un’azione incisiva delle organizzazioni sindacali che devono imporre una cogestione trasparente del risanamento del settore. Occorre la consapevolezza che la piena assunzione delle proprie responsabilità da parte di ciascuno dei soggetti in campo, è condizione necessaria per ridurre i danni più gravi.

Ma poiché nessuno ha l’anello al naso occorrono serie garanzie. Negli anni ottanta negli Stati Uniti le importazioni di acciaio e di automobili misero in ginocchio produttori nazionali. Nello stesso tempo il trasporto aereo, allora simboleggiato da Twa e Pan Am fu travolto da una profonda crisi. Un contributo importante venne dalla destinazione di quote parte delle retribuzioni (presenti e future) all’aumento di capitale delle società dando vita a consistenti partecipazioni azionarie dei lavoratori, rappresentati nei consigli di amministrazione.

Una parte minoritaria del sindacato americano definì polemicamente queste intese, peraltro accettate col voto di tutti gli interessati, come “buy back dealing”, accordi di restituzione. Certo non è tutto oro quello che luccica. Non tutte le realtà coinvolte sopravvissero alla crisi, ma la cura nel suo insieme funzionò. Ancora oggi quel modello è ancora in atto per milioni di lavoratori, con circa un milione di dipendenti che controllano la maggioranza assoluta della propria azienda. Ragioni economiche, sociali, culturali e politiche inducono a non trasferire meccanicamente le esperienze di una realtà come quella americana in un paese europeo come l’Italia.

Ma l’esigenza di uno scambio forte tra impresa e lavoratori, sulla base di vasti interessi comuni, è condizioni per creare un rapporto davvero paritario sulle scelte strategiche che garantisca una efficace difesa dei posti di lavoro. Nel caso delle banche, ma non solo, senza una proposta forte rimarrebbe al sindacato una posizione di difesa, del tutto comprensibile ma molto debole che rischierebbe di essere travolta da ristrutturazioni a senso unico senza garanzia alcuna.

In questi giorni dovrebbe materializzarsi un decreto per incentivare la distribuzione delle azioni ai dipendenti ma sembra che le risorse disponibili siano scarse. Forse è il caso di farlo diventare uno strumento davvero efficace di “share economy”. Come ogni cittadino, nel bene e nel male è di fatto azionista partner della proprietà comune, così al livello delle singole imprese, i lavoratori dovrebbero divenire partners dell’attività economica in una logica partecipativa che tolga all’inevitabile (e necessario) conflitto sindacale ogni carattere antagonista.

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