È evidente che tra due anni, per i prossimi stress test, l’Eba sarà riposizionata nell’Ue ed abbandonerà la City. Tenendo conto che questo esercizio pare essere vitale per gli organismi di supervisione per migliorare lo stato dei bilanci delle banche, forse non cambierà solo la sede ma anche la metodologia, che non scalfisce per ora l’arbitrarietà di gestione di molti dei dati considerati nei test di scenario.
Dalle 123 banche del 2014 si è scesi a 51 banche, escludendo così le banche di Portogallo, Cipro e Grecia. Tra le 72 escluse solo Monte dei Paschi di Siena ha avuto l’onore di rimanere nella rosa delle banche analizzate e dagli esiti è facile comprenderne il motivo. Questa esercitazione, che fa dell’Eba un organo vitale, puntava a valutare le vulnerabilità rimaste scoperte dopo che le banche sono state tempestate di quanto mai onerose normative negli ultimi anni e soprattutto a valutare l’impatto di dinamiche avverse e concomitanti (come se negli ultimi due anni non avessimo vissuto l’impossibile tra svalutazioni cinesi, attentati spaventosi, emergenza profughi e crollo dei listini a inizio anno). Mi chiedo perché gli stress test coinvolgano solo le banche e non le Sgr o le assicurazioni – esentate da queste pratiche sciamaniche – o meglio ancora i gruppi finanziari nel loro complesso di attività finanziarie altamente correlate.
I risultati, tranne che per Mps, sono stati soddisfacenti a evitare un intervento dei regulators che avrebbero potuto sollecitare le mosse necessarie per rientrare nei parametri e quindi nel rispetto dei coefficienti patrimoniali, o almeno di mantenerli sopra la soglia di sicurezza, che nel 2014 era il 5,5%. Italia e Spagna escono a testa alta, ma, guardando alle ultime dieci classificate, Germania, Irlanda e Gran Bretagna non ne escono benissimo. Tra le banche che si trovano nello scenario più avverso, tra la soglia del 5,5% e l’8% (che corrisponde al Cet1 minimo indispensabile per evitare il commissariamento), spiccano infatti Commerzbank, Deutsche Bank e Barclays insieme a Unicredit.
E se per le banche irlandesi la Brexit si sta rivelando un affare, come dimostrano i piani di spostamento di M&G e tanti altri a Dublino, per le banche tedesche la situazione di bassa redditività evidente e l’esposizione sui derivati non pienamente valutati da questi stress test restano una zavorra. Inevitabili quindi le conseguenze sui subordinati delle banche più fragili evidenziate da questi test.
Per l’Italia, al di là del caso Mps, ampiamente rimbalzato sui giornali di tutto il mondo, c’è un’altra verità evidente, e cioè che, se non passerà il prossimo referendum sulla riforma costituzionale, il recupero delle quotazioni che si verificherà dopo questi stress test, riportando il nostro listino nella “rampa di lancio” tra i 18mila e 20mila punti, invertirà la rotta con l’ennesima ondata di speculazione sulle banche, che, avvinghiata alla variabile politica, potrebbe riportare drasticamente le quotazioni anche a rompere la soglia di salvaguardia di 15mila punti.
Come ha sottolineato più volte Draghi, la questione dei crediti deteriorati necessita di soluzioni in accordo con l’Ue e a mio avviso non occorre sedersi sugli allori della soluzione dell’ultimo minuto trovata per Mps che tutti noi abbiamo vissuto come una puntata di Segreto, cioè una tragica telenovela caratterizzata da casi umani di un’altra epoca. Ma bisogna trovare una soluzione complessiva per mettere al riparo definitivamente il sistema bancario italiano, che esce da questi test con un grado di solvibilità migliorato e soddisfacente, varando norme efficaci per il mercato degli Npl.
Altrimenti continueremo ad assistere ad high frequency trader ed hedge funds che giocano con il nostro listino in barba alla Tobin Tax e giocando a Pokemon Go con le nostre banche, ancora una volta a spese degli investitori finali, che con i tassi sotto zero e orfani dei Btp si rifugiano nell’azionario e nelle campagne dividendi alla ricerca di un rendimento salvo da oneri commissionali eccessivi.