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Banche e imprese nella Nuova Globalizzazione: le novità del 15° Rapporto della Fondazione Rosselli

INTRODUZIONE, Giampio Bracchi e Donato Masciandaro

Quali saranno gli effetti delle nuove forme di globalizzazione per le banche e le imprese italiane, dopo la fase più acuta della crisi finanziaria ed economica mondiale? Come cambierà il rapporto con i mercati interni ed internazionali? Nella perdurante incertezza del quadro economico, l’analisi delle tendenze in atto sia nell’industria finanziaria che in quella reale deve procedere sempre più in modo fortemente integrato. La globalizzazione sta percorrendo traiettorie inedite, in cui occorre comprendere quale ruolo potrà giocare il sistema finanziario e industriale italiano. Il Rapporto è partito da un’osservazione che sta emergendo con forza nell’analisi economica: la globalizzazione economica e finanziaria cambia pelle, un fenomeno che si era iniziato a registrare già prima della crisi del 2007-2008.

1. VERSO UNA NUOVA GLOBALIZZAZIONE NELL’ECONOMIA E NELLA FINANZA

A partire dagli anni Ottanta, la prima fase della globalizzazione ha avuto come motori le nuove tecnologie, in particolare quelle Ict, l’integrazione della regolamentazione e l’apertura di nuove economie continentali, e come effetto fondamentale la maggiore circolazione di beni, servizi e persone. Tecnologie e regole sono i catalizzatori strutturali di ogni cambiamento: la tecnologia consente di estendere quello che si può fare; le regole delimitano i confini di quello che si deve fare. Gli sviluppi della tecnologia – in particolare, ma non solo, legati alla produzione, gestione e comunicazione dell’informazione – hanno dato a imprese e banche la possibilità di superare le barriere tradizionali di mercato e di prodotto; la regolamentazione ha in generale assecondato tale processo.

La globalizzazione reale e finanziaria si è così sviluppata, con tempi e modalità diverse, praticamente in tutto il mondo, accelerando anche la crescita dei mercati emergenti. Al finire degli anni Dieci del nuovo secolo si è però cominciato a constatare una Nuova Globalizzazione, guardando soprattutto all’economia reale (ad esempio, vedi Grossman, Rossi-Hansberg, 2008 e anche Ocse, 2007) e osservando quello che stava accadendo nei processi produttivi. Lo sviluppo tecnologico, che prima aveva contribuito soprattutto a integrare i mercati, ora può essere pienamente utilizzato per frammentare i processi produttivi dell’impresa, al fine di aumentare la sua capacità di creare valore in mercati che nel frattempo continuano a integrarsi.

Lo stesso fenomeno è verificabile nella tendenza al passaggio da banca internazionale a banca multinazionale. La frammentazione del processo produttivo implica la possibilità per l’impresa e la banca di fare scelte lungo due diverse dimensioni, per ciascuna funzione economica: internalizzare o esternalizzare (il “che cosa”); localizzare o delocalizzare (il “dove”). Inoltre ciascuna impresa o banca può partecipare a un processo di frammentazione della catena produttiva (o del valore) come acquirente o venditore (il “come produttivo”). Infine, la ristrutturazione della catena del valore può avere effetti profondi anche nei rapporti dell’impresa con i mercati finanziari (il “come finanziario”): si veda ad esempio il fenomeno dei cosiddetti mercati dei capitali interni, sia delle imprese (Boutin et al, 2011), sia delle banche (de Haas, Van Lelyveld, 2010).

Dunque la Nuova Globalizzazione tende a presentarsi in generale come un’opzione strategica a quattro dimensioni (strutturale, geografica, di mercato e finanziaria), da cui può dipendere in ultima analisi la competitività sia delle imprese che delle banche. La rilevanza della nuova prospettiva è verosimilmente differenziata fortemente a seconda dell’impresa, del mercato o settore, del Paese di riferimento. Nel caso dell’Italia, rispetto alla Nuova Globalizzazione va analizzata e valutata l’efficacia dei paradigmi di riferimento del nostro sistema produttivo e finanziario, quali la media impresa o il distretto industriale.

Nella Nuova Globalizzazione, il ruolo giocato dall’evoluzione della regolamentazione è ancora tutto da definire. Da un lato, occorre tener conto del fatto – come è stato notato in Accetturo et al. (2011) – che la frammentazione e l’eterogeneità dei sistemi legali può frenare la Nuova Globalizzazione. Da un’altra visuale, l’evoluzione in corso della regolamentazione potrebbe favorire i processi di frammentazione efficiente; nel caso della regolamentazione bancaria, ad esempio, si è sostenuto che l’evoluzione in corso potrebbe favorire la banca multinazionale rispetto a quella internazionale (Mc Cauley et al., 2011). Il quadro di riferimento è divenuto più complesso con la grande crisi del 2008- 2009, alla cui fisionomia può peraltro avere anche contribuito – come osservato in Baldwin (2009) – il fenomeno della Nuova Globalizzazione.

La crisi, oltre alla caduta della crescita economica, ha provocato un aumento tuttora presente nella volatilità e nell’incertezza. Quale sarà ora l’effetto del combinato disposto di Nuova Globalizzazione e perdurante crisi sulla fisionomia del sistema produttivo e finanziario? Rispetto a questa domanda, il Rapporto cerca di offrire elementi di analisi e conoscenza, legati – com’è nella sua missione – all’Italia, allorché sempre in un’ottica comparata. La prospettiva di analisi che il Rapporto ha scelto riguarda, come negli anni precedenti, le relazioni tra economia reale, finanza e regole. Perciò, nella selezione dei lavori che sono diventati poi capitoli del Rapporto, sono state scelte quelle analisi che si occupassero di tre diverse aree specifiche, a cui corrispondono le tre parti in cui è articolato il Rapporto: le relazioni tra banche e imprese; la strategia delle banche; l’evoluzione nel disegno delle regole e della vigilanza.

2. LA RELAZIONE FRA BANCA E IMPRESA NELLA NUOVA GLOBALIZZAZIONE

Riguardo ai rapporti tra imprese e banche, la diversa configurazione della catena del valore che la Nuova Globalizzazione sembra incentivare implica in generale una riconsiderazione dei rapporti tra l’impresa e l’intermediario che può fornire diversi input intermedi, di cui il credito commerciale rappresenta solo l’esempio più tradizionale e diffuso, almeno nell’esperienza continentale. In tale ambito, la questione principale finora emersa è quella dell’internazionalizzazione. La Nuova Globalizzazione significa pensare a un diverso rapporto che le imprese e le banche devono avere nei confronti con l’estero, in termini di prodotti, funzioni e localizzazioni.

Il Rapporto, con il capitolo di Masciandaro, Rizzi, ha innanzitutto analizzato l’evoluzione congiunta dell’internazionalizzazione delle imprese e delle banche italiane nel periodo 2001-2009. I dati macroeconomici offrono alcune indicazioni generali. Le analisi mostrano che nel decennio la nostra quota di mercato complessiva è rimasta sostanzialmente stabile e anche i margini di profitto hanno tenuto, se si escludono i mesi culminanti della crisi 2008-2009. La constatazione della capacità del settore produttivo italiano di difendere le proprie posizioni va però accompagnata dalla consapevolezza che l’internazionalizzazione, sia reale che finanziaria, è rivolta prevalentemente verso i partner europei e gli Stati Uniti, mentre le relazioni con i paesi emergenti risulta ridotta e stagnante; inoltre l’internazionalizzazione reale e quella finanziaria appaiono solo debolmente associate.

Il Rapporto ha elaborato due indici, rispettivamente di partnership reale e di partnership finanziaria, per individuare dove sono ubicati le nostre attività reali e finanziarie. Il primo indice – che considera sia le esportazioni che gli investimenti diretti all’estero – vede ai primi posti Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti. L’indice di partnership finanziaria – che considera le nostre attività all’estero bancarie e finanziarie – registra ai primi posti Germania, Uk, Austria, Francia e Usa. La classifica riflette verosimilmente l’attivo ruolo svolto dalle maggiori banche italiane nei paesi europei, tenendo conto della presenza nei primi posti anche di Croazia, Polonia e Ungheria. Dunque i dati macroeconomici ci dicono che finora le banche e le imprese italiane hanno saputo nel decennio fronteggiare l’accentuata concorrenza internazionale, ma non hanno saputo intrecciare in modo importante le proprie strategie con l’evoluzione in corso nelle economie più dinamiche.

Questa non è una buona notizia in termini di competitività del nostro sistema Paese, in quanto il ruolo dei Paesi emergenti è stato e sarà centrale nel concreto svilupparsi della Nuova Globalizzazione. Inoltre, potrebbe essere una cattiva notizia anche il debole legame tra flussi reali e flussi finanziari, soprattutto se divenisse una caratteristica di non breve periodo. Infatti, un Paese la cui struttura produttiva crea valore all’estero in modo stabile, sarà caratterizzato da un andamento coerente dei flussi reali e finanziari: se si crea valore, si accumulano attività finanziarie. I motivi di preoccupazione sul grado di competitività, effettiva e prospettica, delle nostre imprese vengono confermati dai due lavori curati da Guelpa e da Altomonte.

Il primo analizza come il cambiamento di paradigma imposto dalla Nuova Globalizzazione faccia emergere come cruciali alcune criticità che in media caratterizzano il nostro tessuto produttivo: ridotta qualità del capitale umano, scarsa capacità innovativa sul territorio e infine eccesso di indebitamento nella struttura finanziaria, rispetto alla dotazione di capitale di rischio. Il livello, assoluto e relativo, dell’indebitamento e le sue caratteristiche sono un fattore cruciale per determinare il grado di competitività delle imprese. Un’impresa è competitiva se i costi dell’indebitamento riflettono la sua capacità di creare valore. Tale relazione deve valere anche in periodi di crisi. Lo studio di Altomonte mostra che in Italia – ma anche in Francia, Regno Unito e Svezia – durante la crisi, verosimilmente al fine di garantire il flusso di credito disponibile, si è indebolito il legame con la produttività. Va peraltro detto che gli indici tradizionali di produttività sono da maneggiare con grande cautela – come osserva giustamente Guelpa – perché non è detto che colgano i fenomeni che stanno caratterizzando la Nuova Globalizzazione.

In ogni caso, almeno durante la prima fase della crisi non sembra esserci stata una penalizzazione delle imprese in termini di razionamento del credito e di onerosità del debito: i dati di Altomonte segnalano che in Italia il 48% delle imprese ha ottenuto linee addizionali di credito, e per il 54,5% senza un aumento dell’onerosità. Inoltre, nel caso delle imprese in cui il costo del credito è aumentato, la crescita dell’onerosità è stata coerente con la produttività d’impresa, almeno per le Pmi. Infatti, l’aumento del costo del credito nel 2008, rispetto al livello medio del periodo 2000-2007, appare associato con il livello della produttività: le imprese meno produttive, quindi più rischiose, hanno visto una variazione dell’onerosità fino al 6,3%, mentre per le imprese più produttive l’onerosità è rimasta quasi immutata (aumento dell’1,5%).

È interessante notare che durante la crisi, nei casi di aumento del costo del credito, la correlazione tra variazioni dell’onerosità e produttività si perde per le grandi imprese, che peraltro partono verosimilmente da livelli assoluti più bassi, in quanto percepite in generale come meno rischiose. Più in generale, durante le crisi si è potuto osservare un peggioramento delle capacità di allocare il credito, anche come causa della ridotta capacità di screening che il sistema bancario mostra tipicamente nelle fasi di espansione che precedono le crisi. L’effetto aggregato è quello di un peggioramento delle sofferenze durante la recessione, che è associato all’espansione degli impieghi che si era registrata durante l’espansione precedente. In altre parole, gli impieghi hanno tipicamente un andamento prociclico, mentre le sofferenze mostrano un profilo anticiclico. Questo risultato viene confermato anche nell’ultima crisi, come mostra il capitolo di Di Colli, Di Salvo, Lopez, analizzando il periodo che va dal 1998 al 2010, e guardando al sistema bancario italiano nel suo complesso.

Dunque, almeno durante la prima fase della crisi il sistema sembra aver garantito la disponibilità di credito, al costo di un fisiologico peggioramento nell’allocazione. Tale risultato non deve necessariamente preoccupare, nella misura in cui il fenomeno ha natura temporanea, visto che prima della crisi le scelte di credito delle banche italiane appaiono coerenti con la creazione di valore prodotta dall’internazionalizzazione. In questa direzione va l’evidenza empirica offerta dal lavoro di Frazzoni, Rotondi, Sobrero, Vezzulli, che mostra un’interessante relazione tra stabilità delle relazioni banca-impresa, capacità di innovare e capacità di esportare.

Risultati altrettanto interessanti vengono presentati da Bartoli, Ferri, Maccarone, Rotondi, che trovano come la capacità di esportare delle piccole imprese sia associata alla stabilità del rapporto della banca, soprattutto se l’interlocutore bancario ha una dimensione internazionale. Quindi nella prima fase della globalizzazione l’internazionalizzazione tradizionale sembra aver trovato una spinta efficace nel modello della banca relazionale, che contraddistingue il nostro sistema di intermediazione. Ma quale sarà l’efficacia di tale modello nella prospettiva della Nuova Globalizzazione? Se la catena del valore si frammenta, per l’intermediazione bancaria si aprono – come spesso accade – sia rischi che opportunità, alcuni dei quali sono analizzati nel rapporto.

Il rischio è legato all’aumento della complessità e della volatilità, che tende a erodere i vantaggi informativi su cui si fonda la peculiarità del modello di banca relazionale. In parallelo, la banca relazionale può però sviluppare una pluralità di servizi, diversi dalla mera erogazione del credito, come sottolineato nel saggio di Arnone, Faraci dedicato alle banche locali nei distretti industriali, che accompagnino le scelte delle imprese che vogliano affrontare strategie coerenti con i percorsi che la Nuova Globalizzazione potrà suggerire, o imporre. Inoltre, la fisionomia dei rapporti tra banca e impresa sarà fortemente condizionata dal percorso che la regolamentazione deciderà concretamente di percorrere in tal senso. Anticipando una riflessione che sviluppiamo più avanti, le relazioni tra banca e imprese coerenti con le traiettorie della Nuova Globalizzazione potranno trovare un catalizzatore, ovvero un freno, nelle normative post crisi.

A questo proposito, il capitolo curato da Brogi mostra come l’obiettivo di riduzione della rischiosità sistemica nell’industria bancaria e finanziaria ha fatto riscoprire la regolamentazione e la vigilanza strutturale, che può incidere direttamente sulle modalità di interazione tra l’intermediario bancario e l’impresa industriale o commerciale. L’analisi dei maggiori sedici gruppi bancari europei evidenzia che l’adozione di forme di regolazione strutturale potrebbe avere rilevanti effetti sulle relazioni tra banche e imprese, e pone in evidenza il problema della separazione fra l’attività di raccolta e prestito da un lato, e le attività di investment banking e di asset management dall’altro. Inoltre, nella ridefinizione dei rapporti banca-impresa, soprattutto a livello locale, occorrerà ripensare anche al ruolo delle cosiddette istituzioni intermedie, come i Confidi, oggetto del saggio curato da Leone, Porretta.

Queste strutture sono ancora basate su vecchie logiche assicurative e sono soventi prive della strumentazione tecnica necessaria per un’adeguata gestione e prezzatura del rischio, situazione che nella crisi le espone al deterioramento del profilo di rischiosità del portafoglio-garanzie e all’aumento degli incagli e sofferenze. Per continuare a rendere virtuoso il trinomio banche-confidi-Pmi nell’attuale critico contesto di mercato, vanno attuate strategie di riposizionamento che coinvolgono un efficiente assetto e dimensionamento organizzativo, l’esternalizzazione mirata di attività, l’introduzione di adeguate professionalità per governare il rapporto rischio-reddito e una ragionevole patrimonializzazione.

La struttura finanziaria dell’impresa dovrà poi tener conto delle opportunità di copertura diverse dal credito commerciale, basate sul capitale di rischio, come il private equity. Il Rapporto dedica alle prospettive del private equity il capitolo di Gervasoni, Scionti, che analizza tra l’altro in che modo il mercato del private equity italiano potrà essere influenzato dalle regolamentazioni recentemente delineate in sede europea. Anche l’attenzione ai nuovi temi della sostenibilità – a detta di molti lo sviluppo della cosiddetta green finance sarà una delle conseguenze della Nuova Globalizzazione – viene affrontata nel lavoro curato da Bagella, Busato.

3. LA GOVERNANCE E LE ALLEANZE

La prospettiva della Nuova Globalizzazione può avere conseguenze anche nel disegno della governance bancaria e finanziaria, intesa nella sua accezione più ampia. Per sua natura l’intermediario produce e distribuisce input intermedi, per cui la frammentazione della catena del valore si può riflettere non solo nei rapporti con l’economia reale, come già sottolineato, ma anche nella definizione delle strategie di mercato, come pure dell’organizzazione aziendale. Riguardo alle strategie, le banche devono necessariamente ripensare il tema delle alleanze, ampliando l’orizzonte delle possibilità, oltre le tradizionali opzioni delle fusioni e acquisizione. Il Rapporto – con il capitolo curato da Amici, Fiordelisi, Masala, Ricci, Sist – offre un’analisi originale proprio delle alleanze non tradizionali, diverse da fusioni e acquisizioni, e rappresentate dalle integrazioni ottenute tramite alleanze strategiche e joint venture.

L’esame di 208 operazioni, di cui 16 italiane, avvenute nel periodo 1999-2009, mostra che il mercato tende ad apprezzare le operazioni di joint venture messe in atto dalle banche, soprattutto nel caso di operazioni caratterizzate anche dalla presenza di intermediari finanziari non bancari o da imprese non finanziarie. Inoltre, vengono apprezzate le joint venture tese all’espansione all’estero, mentre non sembrano particolarmente gradite le operazioni – come le semplici alleanze strategiche – in cui la condivisione di rischi e opportunità è più debole, rispetto appunto alle joint venture. L’utilizzo delle joint venture finalizzate, come strumento alternativo alla fusione e acquisizione, dovrà essere seriamente preso in considerazione dalle banche italiane, nessuna esclusa. Anche le banche più grandi, infatti, possono individuare operazioni che aumentino l’efficienza complessiva, senza necessariamente passare dalle fusioni e acquisizioni.

Questa indicazione trova supporto anche dai risultati riportati nel capitolo di Caiazza, Pozzolo, che hanno esaminato le operazioni di fusione e acquisizione fallite. Sono state esaminate 20.000 operazioni bancarie nel mondo, tentate nel periodo tra il 1992 e 2010 (di cui 37 italiane) in oltre 150 Paesi. È interessante notare come l’importo medio delle operazioni fallite sia più del doppio di quello delle operazioni coronate da successo, mentre il numero delle operazioni fallite è in media il 5% del totale. Il fallimento di un’operazione di fusione bancaria appare tanto più probabile quanto più l’operazione è ostile e regolata con modalità diverse dal contante. Inoltre la probabilità d’insuccesso cresce all’aumentare della dimensione dell’acquisizione.

Riguardo invece al disegno della governance, è indubbio che la riconsiderazione della catena del valore presuppone una riconsiderazione anche dell’efficacia dei meccanismi di allocazione della proprietà e del controllo, sulla cui rilevanza molti sono i dubbi sorti dopo la crisi. In effetti, i casi di instabilità aziendale nel settore bancario e finanziario – sfociati talvolta in situazioni di instabilità sistemica veri e propria – hanno toccato industrie e sistemi Paese fino a quel momento ritenuti robusti e affidabili proprio dal punto di vista del disegno delle architetture di governance. È indubbio che, almeno fino al 2008, i risultati aziendali delle banche possono essere stati associati all’asset istituzionale rappresentato dalla governance, come mostra il lavoro curato da Battaglia, Meles, Starita, o all’asset intangibile della reputazione, come analizzato dal capitolo di Soana, Schwizer. Ma è ancora così? E seguendo quali direzioni?

4. IL RUOLO DELLA REGOLAMENTAZIONE

La crisi ha indubbiamente scosso i pilastri su cui era fondata la relazione tra efficienza economica e finanziaria, da un lato, e disegno delle regole e delle istituzioni, dall’altro. Negli ultimi due decenni l’approccio alla regolamentazione economica – inclusa quella specifica di intermediari e mercati bancari e finanziari – sembrava essersi definitivamente uniformata, con ottimi risultati, al principio di coerenza con gli incentivi individuali. Una buona regolamentazione consente la massimizzazione delle scelte individuali; questo assicura automaticamente un’ottima allocazione aggregata delle risorse. Nel campo della banca e della finanza, se le regole – cosiddette market frendly – consentono a ciascuno di ottimizzare la gestione e/o l’assunzione del rischio, l’allocazione ottimale delle risorse, sia in termini di crescita che di stabilità sistemica, sarà garantita.

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La crisi ha demolito questa certezza. Il capitolo curato da Dalla Pellegrina, Masciandaro mostra come l’analisi empirica della crisi economica 2008-2009 evidenzia che il ruolo giocato da istituzioni, regole e regolamentazioni, incluse quelle bancarie e finanziarie, nel determinare le performance macroeconomiche di un Paese è tutt’altro che scontato. Quindi occorre ripensare i paradigmi di riferimento, anche esplorando nuovi sentieri di ricerca. Il Rapporto concentra la sua attenzione sul ruolo della vigilanza – dedicando ad essa il lavoro di Carretta, Farina, Graziano, quello di Carretta, Liccardo e Nicolini e quello di Donato, Cossa – che occorre valorizzare, dopo un periodo in cui un’eccessiva fiducia nei presidi rappresentati dai coefficienti di capitale e dalla cosiddetta disciplina del mercato ha finito per sminuire e deresponsabilizzare l’azione di supervisione, soprattutto nel mondo anglossassone.

In conclusione, è pur vero che sul piano internazionale le imprese e banche italiane hanno saputo affrontare, nel corso dei primi anni del nuovo secolo, sia la maggiore concorrenza che il delicato passaggio almeno della prima fase della crisi finanziaria ed economica. Le banche hanno garantito la disponibilità di credito a condizioni non penalizzanti. Ma la prospettiva della Nuova Globalizzazione, se consolidata, può cambiare profondamente le modalità con cui si definiscono le strategie, in particolare, ma non solo, rispetto alla sfida dell’internazionalizzazione, con particolare attenzione ai rapporti con le economie emergenti. È necessario guardare anche oltre l’Europa. Riguardo ai rapporti tra banca ed economia, finora le banche italiane hanno saputo essere partner efficaci per quelle imprese, anche piccole, che hanno saputo coniugare innovazione e internazionalizzazione. Ma queste imprese non fanno ancora massa critica rispetto al sistema Paese.

Le banche, da parte loro, devono interrogarsi su come la Nuova Globalizzazione può cambiare le strategie, sia rispetto ai rapporti con le imprese, sia nell’organizzazione interna. Nuove strade vanno considerate, come quello delle alleanze strategiche con partner non bancari, soprattutto nella prospettiva dell’internazionalizzazione. Su tutto lo scenario, incombe l’incognita non solo del perdurare della debolezza dei mercati e della crisi del debito sovrano, ma anche della stessa regolamentazione, che potrebbe ostacolare, invece che favorire, rapporti tra banca e impresa coerenti con la ricerca di nuovi percorsi per la creazione del valore.

BIBLIOGRAFIA

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