Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando la regolamentazione bancaria “light touch” la faceva da padrona, allorché il pensiero dominante era che ci si potesse fidare di poche regole delegando tutto il resto all’autoregolamentazione. Il risveglio da quel sogno fu l’incubo del 2008-09. Da allora i regolatori internazionali si sono affannati in un crescendo verdiano a scrivere nuove regole. Non potendo scendere nel dettaglio, basti osservare la figura che mostra plasticamente le pile crescenti di nuove regole.
Ma queste regole stanno centrando l’obiettivo di assicurare la stabilità bancaria? Oppure costruiscono dei moloch che non rispondono a nessuno, poco si parlano tra loro, rendono il meccanismo dell’intermediazione disfunzionale e rischiano di compromettere la sostenibilità economica riverberandosi sulle banche stesse?
Il caso dell’Italia è abbastanza paradigmatico. Tra il 2006 e il 2014, in rapporto all’Eurozona, il PIL italiano è calato dal 17,4 al 16% ma ancor più si è contratta la quota sugli investimenti, dal 17,4 al 15,6%. Dunque, in un continente che in questi anni non ha certo brillato, la nostra economia si è rimpicciolita. E la caduta di circa un quarto della produzione industriale diverrà per noi un impoverimento duraturo se non ripartiranno presto gli investimenti, ampliando la capacità produttiva, generando posti di lavoro.
Ovviamente, sono le imprese che debbono ritrovare gli “animal spirits” per investire ma appena lo faranno dovranno confrontarsi con la difficoltà delle banche a dar loro il credito necessario. Va infatti ricordato che da noi è massimo il peso dei debiti bancari sui debiti finanziari totali delle imprese: 64%, contro 46 dell’Eurozona, 29 di Regno Unito e USA (dati Banca d’Italia sul 2013). È auspicabile che anche le nostre imprese vadano di più sui mercati finanziari, ma l’aggiustamento non potrà che essere graduale.
Intanto, se non si escogiterà qualche modo per oliarlo – esempio un grande piano di garanzie pubbliche – il sistema bancario sarà impossibilitato a sostenere adeguatamente il rilancio degli investimenti, legato dai lacci regolamentari come Gulliver a Lilliput. È così, impoverendoci in modo permanente, che si riuscirà a rendere le nostre banche più solide? I dubbi paiono legittimi.
I risultati dell’Asset Quality Review più stress test di un anno fa, da parte di BCE ed EBA, ci hanno consegnato risultati non proprio esaltanti. È diffusa l’impressione che le banche orientate alla finanza siano state trattate con il velluto mentre quelle che fanno più credito, come le nostre, ne siano uscite svantaggiate. Da allora si sono succedute interpretazioni restrittive della normativa da parte di quelle autorità e qualcuno chiede ora che i crediti nei confronti degli Stati non siano più computabili a rischio zero, misura che sarebbe disastrosa per l’Italia.
L’applicazione recente della logica del “bail-in” a quattro banche medie ha reso consapevoli i risparmiatori italiani delle implicazioni di una normativa che a molti pareva esoterica. Il “bail-in” – da non dire alla genovese – è una delle ultime creature di una normativa che, pur con ottime intenzioni, rischia di non risolvere i problemi per cui nasce e di crearne di più gravi. Al contrario del “bail-out” – salvataggio pubblico – il “bail-in” vuole salvare le banche in difficoltà coinvolgendo in prima battuta investitori e risparmiatori.
È un principio sacrosanto se applicato agli azionisti e ai detentori di obbligazioni in qualche modo convertibili. Si è invece scelto di applicarlo, per sommi capi, a tutte le passività della banca salvo i depositi fino a 100.000 euro. Siccome, per la minore tassazione, oltre un terzo della raccolta bancaria da clientela è fatta di obbligazioni, sono molti i risparmiatori “ignari” che rischiano di subire perdite avendo depositato fondi in banche traballanti.
Non per nulla, il governo italiano ha subito annunciato che sarà istituito un fondo ad hoc, ma bisognerà vedere se questo risulterà accettabile in sede europea.In ogni caso, qual è il principale problema del “bail-in”? È lo stesso problema per cui dopo i diffusi fallimenti bancari degli anni Trenta nacque l’assicurazione dei depositi. Se chiediamo ai depositanti di essere loro a vigilare che le banche non prendano rischi eccessivi incorre nel problema della asimmetria informativa tra banca e depositante.
Vale a dire, nessuno conosce meglio della banca stessa il valore dei crediti che essa ha concesso. Se, per qualsiasi motivo, si diffondono voci negative sulla banca A, i suoi depositanti (es. obbligazionisti) temendo perdite sulla propria pelle si precipiteranno a ritirare i loro fondi per trasferirli a un’altra banca ritenuta più solida. Se si tratta di una reazione diffusa, la banca A potrebbe non avere abbastanza liquidità per far fronte ai ritiri di fondi.
Qualora non supportata abbastanza dalla Banca Centrale, rischierebbe di entrare in un vortice di illiquidità che la porterebbe a svendere all’incanto crediti a prezzo inferiore al costo, trasformando così una crisi di illiquidità in un’insolvenza. Anticipando questo possibile evento, la banca A sarà molto cauta a concedere crediti non prontamente liquidabili senza sopportare perdite. Il risultato è che vi sarà meno credito disponibile per l’economia e, verosimilmente, quello che ci sarà costerà di più.
Perciò, ricollegandomi a quanto detto sopra, è evidente come queste trasformazioni regolamentari renderanno il meccanismo dell’intermediazione disfunzionale.È un rompicapo che qualcuno un giorno dovrà spiegare perché gli sviluppi regolamentari degli anni post crisi ignorino in gran parte i vincoli imposti agli intermediari dall’esistenza di insuperabili asimmetrie informative. In termini generali, la logica seguita è invece quella di ridurre i rischi in capo alle banche ingessandole di capitale, soggiogandole al monitoraggio di soggetti (come i depositanti con il “bail-in”) che non ne sanno abbastanza.
Molti anni fa, Milton Friedman aveva già descritto dove portava questo processo: a banche con il 100% di capitale. Nei manuali accademici si cita questo come caso di scuola in cui le banche sono perfettamente stabili ma l’economia non ne riceve alcun credito. Vi è da chiedersi: non è che siamo dentro a una bolla regolamentare? E, se sì, chi vi metterà mano?