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Banche centrali in altalena ma Borse e bond senza grossi problemi

Da “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – Fare il banchiere centrale è diventato un mestiere difficile: prolungare le politiche monetarie espansive può alimentare una nuova bolla ma fermarle troppo presto può provocare la recessione – Per ora la prudenza dei banchieri centrali non crea difficoltà alle Borse e ai mercati obbligazionari

Banche centrali in altalena ma Borse e bond senza grossi problemi

Ammettiamolo, fare il banchiere centrale è stato più facile in altri momenti. Premere sull’acceleratore come si è fatto in questi ultimi sette anni ha dato popolarità e ha permesso di essere visti come salvatori di un mondo precipitato nella crisi. Ma anche fare i frenatori, come capitò a Volcker quando nel giugno 1981 portò i tassi al 20 per cento per battere un’inflazione che aveva toccato il 14.5 per cento, ha fatto guadagnare una fama duratura di combattente contro le forze del caos.

Oggi che il mondo va abbastanza bene (e i mercati ancora meglio) fare il banchiere centrale sta diventando un mestiere difficile. Le possibilità di fare un passo falso sono molte, mentre la strada giusta è stretta, difficile e soprattutto ancora poco chiara.

Continuare a oltranza con politiche monetarie ultraespansive, giustificandosi con il fatto che l’inflazione è ancora modesta, rischia di provocare una bolla generalizzata degli asset finanziari e di alimentare un’euforia di cui si cominciano a vedere alcuni segnali. Dovesse l’inflazione alla fine arrivare, come i Tartari attesi per tutta la vita nel romanzo di Buzzati, lo scoppio della bolla renderebbe gli effetti di un rialzo ritardato dei tassi ancora più pesanti e potrebbe portare a una recessione.

Ma a una recessione si potrebbe arrivare anche per la via opposta, ovvero alzando i tassi e abbandonando il Quantitative easing troppo in fretta in omaggio, come avrebbe detto Keynes, a dottrine di economisti morti più di 40 anni fa, come il Phillips della famosa curva. In un mondo in cui il debito continua a salire e ha raggiunto il 327 per cento del Pil, sbagliare i calcoli e alzare i tassi un millimetro di troppo manderebbe la navicella spaziale dell’economia globale a perdersi nello spazio profondo.

Va bene, si potrebbe dire, alla fine è meglio non fare niente e limitarsi a piccoli aggiustamenti della politica monetaria distanziati nel tempo, come si è fatto finora. Muovendosi con prudenza nessuno si è fatto male, né le economie né i mercati. È vero, ma il tempo che passa lavora contro la linea del quasi immobilismo. In primo luogo, come abbiamo visto, perché i mercati lo leggono come il via libera per l’espansione senza limiti dei multipli azionari e per l’acquisto senza ritegno di bond a 100 anni di emittenti anche discutibili. In secondo luogo perché si avvicina sempre di più il momento in cui i modelli econometrici si metteranno a lampeggiare prima e a fare partire le sirene poco più tardi per segnalare l’esaurimento dell’output gap, ovvero della benzina che alimenta una crescita senza inflazione.

È la consapevolezza del tempo che lavora contro e del fatto che prima o poi bisognerà fare qualcosa (o frenare o buttare nel camino i modelli, dichiarandoli inadeguati al nostro nuovo mondo) a rendere i banchieri centrali così nervosi e sfuggenti.

Ecco allora la Yellen dichiarare che gli asset finanziari cominciano a essere cari, salvo poi, una settimana più tardi, lanciare una nuova gamba di rialzo sulle borse e interrompere sul nascere un ritracciamento dei bond adottando toni morbidi e rassicuranti sul futuro dei tassi d’interesse nella sua testimonianza davanti al Congresso.

Ed ecco Draghi a Sintra dichiarare di fatto conclusa con successo la faticosa missione di riportare a galla l’economia europea in tutti i suoi settori e in tutti i suoi paesi, salvo poi reinserire nell’ultimo comunicato della Bce il concetto del tutto pleonastico di ulteriori energiche manovre espansive qualora se ne presentasse il bisogno. E assumere toni vaghi, ostentatamente imprecisi, sui tempi e sui modi dell’addio al Quantitative easing.

Insomma, nelle scorse settimane tutte le grandi banche centrali (con l’eccezione di quella del Giappone) hanno trasmesso il messaggio di un’accelerazione del processo di normalizzazione della politica monetaria e poi sono sembrate tutte fare un passo indietro. È stato un ballon d’essai? È stato un tentativo di reintrodurre un minimo di volatilità nei mercati e di ridurre così certi eccessi di posizionamento?

L’impressione è che si navighi a vista lungo una rotta tracciata su una vecchia mappa scolorita su cui è disegnata la curva di Phillips. La rotta è quella di sempre, ma la velocità di avvicinamento alla meta è erratica. Ogni tanto si avviano i motori e si percorre un tratto, dando una piccola stretta alla politica monetaria, ma poi ci si ferma all’improvviso e si getta l’ancora in mezzo all’oceano, aspettando di vedere se si alza il vento dell’inflazione.

Nel frattempo si cerca di dare maggiore stabilità alla nave aggiustando i pesi interni. Si inizia lentamente (da settembre) a svuotare di liquidità la cisterna americana e ci si prepara a ridurre il flusso versato in quella europea, ma in compenso la cisterna giapponese si prepara a essere riempita in modo ancora più aggressivo. L’effetto netto è quasi nullo.

Questo grande lavorio di travasi di liquidità si accompagna a un aggiustamento dei rapporti di cambio che riflette correttamente il perdere colpi da parte di America e Giappone e la nuova forza dell’economia europea. Essendo un aggiustamento deciso a tavolino, è meglio seguirne la tendenza (corti di dollaro e yen, lunghi di euro, Canada, Australia ed emergenti). Quando l’aggiustamento sarà terminato si potrà uscire con comodo, perché non ci sarà volatilità.

Le borse festeggiano la prudenza delle banche centrali e i buoni utili (forse gli ultimi così buoni) del secondo trimestre e partecipano alla redistribuzione dei pesi nella nave attraverso i nuovi rapporti di cambio. E così restano indietro gli esportatori europei, in particolare tedeschi, mentre si rafforzano gli esportatori americani. Non è una redistribuzione di quote di mercato, ma una redistribuzione di utili, di più all’America e di meno all’Europa.

Con la debolezza del dollaro la borsa guida, quella americana, spera di compensare il possibile modesto rialzo dei tassi a lungo che la Fed sta preparando per la fine dell’anno. Quanto al 2018, non tutto è ancora da considerare perduto sul fronte della riforma fiscale.

Borse e bond continueranno quindi a non avere seri problemi fino al giorno in cui si vedrà salire l’inflazione. Oggi nessuno sa se quel giorno sarà fra tre mesi, tra un anno o mai. Più i mercati salgono e più quel giorno, se mai arriverà, sarà spiacevole. Per questo il suggerimento resta quello di continuare a godere del bull market stando investiti, ma con moderazione.

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