Coreano di nascita, cittadino americano e dottore, Jim Yong Kim è il nuovo presidente della Banca Mondiale. Il medico di origini sudcoreane ha 52 anni e succederà l’attuale presidente dell’istituto di Washington, Robert Zoellick. E’ una pasticca amara per i Paesi emergenti e i Brics che sostenevano invece la ministra delle Finanze nigeriana, Ngozi Okonjo-Iweala, e che puntavano a rompere il consueto dualismo Usa-Ue ai vertici della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Ma Jim Yong Kim porta con sè un’importante aria di rinnovamento. Il nuovo Presidente, nella sua prima intervista alla Bbc, ha sì sottolineato la necessità di puntare alla “crescita dell’economia di mercato”, una priorità per ogni Paese che voglia creare occupazione ed eliminare la povertà. Ma ha inoltre annunciato l’intenzione di tenere in attenta considerazione le peculiarità culturali e sociali delle regioni, per assicurare che i diversi programmi della Banca mondiale abbiano successo: “Se ci concentriamo su quanto funziona e lo adattiamo al contesto locale credo che avremo successo”.
Queste frasi sono il riflesso di un cambiamento fondamentale che negli ultimi anni sta caratterizzando i progetti di sviluppo dell’Istituto, che parla sempre di più di uno sviluppo diverso, legato non solo al miglioramento delle situazioni economiche, ma anche di quelle sociali, culturali e umane.
Kim è uno scienziato, non un economista. E’ cresciuto in Iowa, e giovane è diventato manager di una delle più prestigiose università statunitensi, il Darthmouth College; ha diretto il dipartimento per la lotta all’Aids dell’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms); ha fondato ‘Partners for Health’, una non-profit impegnata nella lotta contro le malattie infettive (Tbc, in particolare) nei Paesi più poveri.
Accademico, fisico, con una laurea in medicina e un dottorato in antropologia, Kim ha riconosciuto di non possedere il know-how politico per tale incarico, ma “sono un medico”, ha dichiarato, “i medici lavorano sugli elementi, piuttosto che impegnarsi per un’unica ideologia, per un particolare punto di vista”. E quando si parla di sviluppo non bisogna mai sottovalutare le esperienze dei nativi: la trasmissione di un sapere o di una tecnica non deve essere un’imposizione quanto piuttosto il risultato di un dialogo fruttifero con le stesse popolazioni.