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Banca d’Italia, ore cruciali nel braccio di ferro Berlusconi-Tremonti sulla nomina del governatore

Facendo nelle settimane scorse un informale sondaggio tra politici, banchieri e alti funzionari della Banca d’Italia sulle ragioni più profonde dello scontro tra Tremonti e Draghi che è inizato poco dopo l’insediamento del nuovo Governo nel 2008 e che è diventato sempre più acuto via via che si aggravava la crisi internazionale, ho avuto le risposte più diverse, ma tutte concordi nell’escludere che ci sia stato in qualche occasione uno sgarbo esplicito o un atto di ostilità da parte del Governatore nei confronti del Ministro.

Certo Draghi ha sempre salvaguardato, specie in sede internazionale, il proprio ruolo e quello della Banca d’Italia, che è diverso ed autonomo rispetto a quello del Governo. E forse è proprio questo che ha eccitato l’antipatia del ministro che, si sa, vuole essere sempre il primo della classe.Insomma, a Tremonti dava fastidio l’eccellente reputazione di cui Draghi godeva in sede internazionale, anche come presidente dello Stability Board, apprezzamento che è del tutto autonomo rispetto a quello di cui gode il Governo italiano e che, anzi, con il passare dei mesi appariva in evidente crescita, mentre quello del Ministro era in evidente declino. Quindi Tremonti era, ed è, geloso dei successi di Mario Draghi e certo non ha molto gradito la sua ascesa al vertice della Bce.

Qualcuno sostiene che, forse, per un certo periodo Tremonti abbia individuato in Draghi un pericoloso concorrente alla poltrona di Palazzo Chigi, alla quale il ministro si sentiva predestinato una volta messo da parte Berlusconi. Ora però la corsa di Tremonti verso la Presidenza del Consiglio si è quantomeno arrestata. Draghi, invece, dalla Bce può ancora di più condizionare la politica economica italiana (come si è visto questa estate con la irrituale lettera della Banca centrale europea a Berlusconi sulle misure di risanamento da adottare), mettendo in ombra il ministro dell’Economia. Questo spiega, almeno in gran parte, il braccio di ferro ingaggiato dal ministro sulla successione a Draghi in Banca d’Italia e la sua insistenza sul nome di Grilli al posto del candidato naturale, e cioè dell’attuale direttore generale della Banca, Saccomanni.

Infatti Tremonti vorrebbe alla Banca d’Italia un uomo meno autonomo e più propenso a fare da semplice spalla al ministro sia nelle scelte di politica economica interna sia nelle battaglie in sede internazionale dove si devono prendere decisioni di grande importanza sia sull’euro che sugli assetti del sistema bancario. Non a caso Tremonti non ha perso occasione per stigmatizzare la decisione di demandare ad un organo tecnico (la conferenza dei Governatori delle banche centrali) il compito di riscrivere le regole di funzionamento dei sistemi finanziari dopo il crack del 2008. A suo parere questo mina il ” primato della politica” che deve essere ripristinato rispetto allo strapotere dei “mercatisti” che con la loro avidità hanno portato il mondo verso il disastro. Ma è proprio qui, in questo impasto tra ambizione personale e malferme teorie economiche, che Tremonti sembra aver perso la bussola.

Sia lui che Grilli, infatti, si sono fatti trovare completamente impreparati di fronte alla crisi di sfiducia che ha investito a fine luglio il nostro debito pubblico. Caparbiamente hanno negato per anni la necessità di varare il prima possibile una serie di riforme strutturali per cercare di innalzare il potenziale di crescita dell’Italia. Sostenevano che non valeva la pena affrontare i rischi di riforme che, dovendo incidere su monopoli o privilegi di tante categorie di cittadini, avrebbero certo suscitato, molti malumori senza peraltro modificare le performance dell’Italia che tanto sono legate esclusivamenre all’andamento della congiuntura internazionale.

Così quando è arrivata la crisi si è agito ancora una volta sulle tasse e sui tagli lineari suscitando lo stesso estese proteste ma senza dare credibili prospettive di sviluppo all’intero Paese. Non si tratta di errori di poco conto da parte del ministero dell’Economia a cui la Banca centrale europea e la Banca d’Italia hanno congiuntamente cercato di porre un argine sia suggerendo una politica economica totalmente diversa da quella seguita, sia con acquisti sul mercato di titoli del nostro debito pubblico. Ed allora che senso può avere oggi una battaglia così ostinata del ministro per colpire l’autonomia e l’autorevolezza della nostra Banca centrale, quando c’è più che mai bisogno di un ente indipendente che possa dialogare con credibilità con le autorità europee e con i mercati? Proprio nessuno.

Forse il ministro cerca una rivincita contro le “tecnocrazie” per rilanciare la sua immagine uscita un pò ammaccata dalle ultime vicende economiche e da quelle giudiziarie che hanno coinvolto un suo stretto collaboratore. Ma questo avverrebbe ancora una volta sulla pelle dell’Italia e degli italiani. Purtroppo la debolezza del presidente Berlusconi sembra favorire la tattica ostruzionistica del ministro. C’è solo da augurarsi che Berlusconi, che è diventato lo zimbello di tutti i vignettisti ed i comici del mondo, voglia per una volta dimostrare che sa scegliere per la salguardia di una delle poche istituzioni italiane che ancora vantano un prestigio mondiale, facendo così l’interesse del Paese.

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