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Banca d’Italia lancia l’allarme sul credito cooperativo ma le Bcc non sono tutte da rifare

La questione bancaria italiana anche per quanto riguarda le componenti minori del sistema è finalmente posta. L’intervento del Capo della Vigilanza della Banca d’Italia del 12 febbraio scorso alla Federazione delle Cooperative Raiffesen di Bolzano disegna, infatti, un quadro invero sinistro della situazione del Credito Cooperativo in Italia, indicando nella aggregazione obbligata delle sue 350 componenti locali attorno a un fulcro centrale l’unica soluzione possibile per il salvataggio di questo storico segmento. Il documento propone, in sintesi, una sorta di autoriforma assistita, unica strada per evitare interventi governativi, ma soprattutto lo spauracchio tanto per l’Autorità di vigilanza nazionale quanto per il Movimento della avocazione delle situazioni più problematiche da parte del neonato Meccanismo Unico di Vigilanza gestito dalla BCE. Cosa che farebbe perdere definitivamente la faccia a tutti. 

L’analisi dei punti critici non lascia fuori nessun profilo: essi sono, per Banca d’Italia, sia strutturali che congiunturali, sono irreversibili e non sono più gestibili con progetti basati su interventi volontaristici, quali l’eterno incompiuto (e ormai definitivamente sepolto) Fondo Istituzionale. Quando si arriva a formulare questa diagnosi, il pensiero corre subito alla ricerca delle motivazioni del come si sia potuti arrivare a questo punto. Ma tant’è, anche se non può non destare sorpresa e irritazione il rapido cambio di scena: soltanto ieri le BCC erano solide con qualche circoscritta situazione di crisi, oggi invece è l’intero sistema ad essere in crisi con qualche singola situazione di eccellenza. 

Una applicazione del paradosso di Parmenide della freccia che saetta nell’aria ma che in ogni istante del tempo è ferma. Le bcc sono solide se fermiamo il tempo, ma se lo facciamo scorrere emergono crepe sempre più numerose e profonde. Che un vertice nazionale abbia proceduto tronfio, sicuro, verrebbe quasi da dire arrogante lungo il proprio disegno di grandeur, senza ascoltare gli scricchiolii da tempo ben udibili, soprattutto nelle componenti più significative della propria articolazione territoriale (si vedano i bilanci 2013 dei sistemi veneto, toscano, lombardo, emiliano) è diventato un fatto certificato. Come lo è, specularmente, il riconoscimento dell’efficacia relativa delle policy di vigilanza che, con il discorso di Bolzano, ammettono di avere per troppo tempo predicato nel deserto. 

Sintesi di tutto: correre ai ripari, senza opzioni possibili, prendere al volo, senza molto discutere, un modello per il credito cooperativo, quello spagnolo sembra di capire (ma forse c’è ancora poca chiarezza di idee), applicarlo senza se e senza ma, con istituti mai sperimentati come il contratto di dominio; insomma coscrizione obbligatoria, serrando le fila con legami indissolubili, non solo associativi, ma industriali. I servizi sono prodotti dalle varie componenti del movimento, si acquistano soltanto internamente, guai a chi rivendica autonomie. È a rischio la cooperazione! Tutti consegnati in caserma o, calcisticamente parlando, tutti in ritiro permanente, agli ordini di un comandante o di un mister con pieni poteri. 

E chi guiderebbe l’autoriforma assistita? Ma che domanda? I soliti noti, come traspare chiaramente dalla lettera circolata in modo riservato (in effetti non si è capito bene se pubblica o privata) pochi giorni prima a firma del Presidente di Federcasse, che, con assoluto tempismo, ha anticipato il discorso di Bolzano, profondendosi nell’analisi del fallimento del sistema, nella indicazione della unicità della via di uscita e in quella del “conducator” (al limite, mi sia consentito, dell’impudicizia, dato che sembra osservare la desolante realtà in qualità di esterno).

Sì, perché di fallimento di sistema si deve a questo punto parlare. Dalla sua ontologia (veramente il credito cooperativo costa all’economia di meno delle altre forme di intermediazione retail?), alle sue deviazioni (i danni, non solo di immagine, dei numerosi conflitti di interesse sono superiori ai benefici della vicinanza al territorio), dalle superfetazioni di governance (pletoricita’ degli organi aziendali e tempi dilatati di occupazione degli incarichi), ai ritardi dei processi operativi (sia tecnologici sia in termini di integrazione e controllo), all’impoverimento nell’offerta di servizi bancari (con utili da intermediazione in titoli maggiori di quelli dell’attività primaria, quasi le BCC si stessero trasformando da banche no profit in società finanziarie). 

Ecco con qualche dettaglio in più la spietata analisi contenuta nel discorso di Bolzano. A mio avviso, merita due parole in più la causa più importante del fallimento: vale a dire la questione che ho chiamato ontologica, cioè della essenza stessa del credito cooperativo nel XXI^ secolo. Per gestire una quota di mercato intorno al 6%, raggiunta con una corsa forzata e rischiosa durata 15 anni e quindi continuata anche dopo lo scoppio della crisi, le BCC necessitano, al momento, di una struttura pari al 15% degli sportelli di tutto il sistema e di oltre il 10% degli addetti all’intera industria bancaria nazionale. In altri termini per produrre una unità di prodotto bancario cooperativo c’è bisogno di un apparato industriale pari a oltre due volte la media del sistema bancario italiano. 

Con questa configurazione, potrà mai essere realmente competitivo, dato che aprendo molti sportelli in centri cittadini le BCC hanno scelto di confrontarsi con mercati più complessi rispetto alla loro tradizione? Come può questa inefficienza non tradursi in maggiori costi per i propri clienti, potendo difficilmente essere compensata dai vantaggi fiscali consentiti alla cooperazione? Inoltre, in termini relativi, il disallineamento è destinato ad aumentare ulteriormente, dato che le BCC, nel loro insieme, non hanno ancora iniziato a ridurre la propria struttura operativa (Banca d’Italia dice che nel 2014 i costi sono addirittura aumentati), come invece sta, giocoforza, avvenendo per altre parti del sistema bancario italiano. 

Il tutto si traduce quasi nella negazione della natura calmieratice in nome della quale fu creata tanto tempo fa la cooperazione del credito. Bisogna a questo punto evitare di fare di ogni erba un fascio e operare una distinzione rispetto a quelle banche cooperative che, sistematicamente e anche mettendosi in posizione critica rispetto al mainstream del movimento, hanno seguito strade più virtuose, puntando sull’efficienza delle componenti industriali della propria attività di intermediazione e quindi sulla produttività in termini sia di prodotto per addetto, sia di volumi intermediati per sportello. I risultati hanno via via generato strutture più robuste, sulle quali far crescere uno sviluppo prudente ed equilibrato, fatti salvi gli effetti della crisi economica che ha ovviamente interessato tutti. 

Cito a questo proposito le cinque banche di credito cooperativo raccolte intorno al modello di business del network Cabel di Firenze, le quali per attivo complessivo si pongono al secondo posto della graduatoria nazionale di tutte le BCC, a non molta distanza dalla più grande (fonte Mediobanca). E ciò a dimostrazione che qualcosa di più e di più positivo si poteva costruire per tutti. È difficile ipotizzare che chi ha operato per anni secondo principi gestionali di maggiore efficienza veda con favore iniziative di aggregazione forzosa, in cui anche le proprie positive modalità di erogazione di servizi tecnologici e professionali, tra l’altro appetite da altre componenti istituzionali del mercato degli intermediari italiani, debbano dissolversi, in nome di un centralismo, che per storia vissuta, non ha dato prova né di piena consapevolezza di ruolo né di sufficiente capacità di approntare per tempo soluzioni adeguate per la buona salute del movimento.

Di fronte a un mondo nuovo che si prepara a essere partorito con tecniche ostetriche di emergenza, le garanzie da dare alle parti migliori del movimento cooperativo non potranno che essere chiare, concordate, credibili, oltre che nelle modalità, anche nelle figure di coloro che ne assumeranno individualmente, sotto l’occhio vigile della vigilanza, le connesse responsabilità. 

A meno che tutto ciò di cui ora freneticamente si parla e si (auto)propone non sia, nel recondito desiderio di qualcuno, destinato a essere, tra qualche tempo, riposto sugli scaffali gattopardeschi del tutto cambi, affinché nulla cambi o dello shakespeariano tanto rumore per nulla. Ma un nuovo fantasma ha cominciato ad aggirarsi per l’Europa, quello del potere di Francoforte di avocare a séP anche le crisi delle banche less significant. E così, citando pure Marx, le paure vanno alle stelle, anche se tutti sanno che fretta e paura non sono mai state, per nessuno, buone consigliere. Purtroppo il tempo è semplicemente scaduto.

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