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Bagnoli, nuove aree industriali a Napoli? Sono lontani i tempi di Lamont Young…

Tutte le metropoli trasformano, da alcuni decenni, le aree industriali in una leva per ridefinire struttura e funzioni delle grandi aree urbane. Il motivo è che questa trasformazione – amalgamare meglio infrastrutture e piattaforme digitali, in una grande metropoli, e consentire una maggiore integrazione tra residenze e luoghi di lavoro, tra tempo libero e tempo di lavoro – crea una dilatazione delle esternalità positive (vantaggi in termini di qualità della vita ed opzioni di espansione per le attività umane) che trasforma la metropoli in una vera e propria macchina per la crescita.

Il caso di Napoli, sollevato molto opportunamente da Gianfranco Borghini su FIRSTonline, è molto calzante, come occasione clamorosamente mancata da una classe dirigente assolutamente unfitted, direbbero gli inglesi, ma, purtroppo, i termini della questione sono ancora più critici di quanto li descriva Borghini.

Il primo problema è il tempo che passa senza lasciare traccia di alcuna azione. La storia comincia molto prima degli anni ottanta: precisamente negli anni sessanta: quando nascono i comitati regionali per la programmazione economica, che dovevano preparare l’avvento delle Regioni. A Napoli, coloro che lavoravano nei comitati in questioni, ed anche autorevoli protagonisti del dibattito sulla politica economica, come Galasso e Compagna, erano convinti che le due aree industriali, a ponente la siderurgia, ed a levante la meccanica, ed i depositi di benzina e le raffinerie, dovevano essere spostate. Quelle aree avrebbero dovuto rappresentare la espansione razionale di una città, costretta tra le colline ed il mare, che, tuttavia, poteva espandere la qualità dei suo spazi attrezzati e migliorare la densità eccessiva che i due “tamponi industriali” comprimevano da levante e da ponente.

Dunque ci vogliono venti anni per chiudere le attività industriali e, come dice Borghini, il proprietario delle aree di Bagnoli decide di iniziare una preliminare azione di bonifica negli anni ottanta. Ma la superficie disponibile supera i duecento ettari citati da Borghini, perché ci sono aree limitrofe, proprietà delle Ferrovie e di imprese private, che potrebbero portare ad oltre trecentocinquanta ettari il suolo disponibile.

Ovviamente si dovrebbe sfruttare questa opzione di espansione per collegare meglio e con intelligenza integrativa questa enorme superficie. Facendola diventare una cerniera tra il comune di Pozzuoli, la piana dei campi flegrei ed il suo sistema di vulcani e colline. Avviene il contrario, agli inizi degli anni novanta il Comune di Napoli propone una variante al PRG veramente inusuale. Tolta l’acciaieria si crea un “buco nero” che la variante ridisegna come se fosse l’interno delle mura di un castello. Non viene in mente a nessuno che quel “buco nero” avrebbe invece dovuto essere la connessione che trasformava l’area di Pozzuoli, l’area dei campi flegrei, il vicino quartiere di fuori grotta e la Fiera di oltremare, le pertinenze marine che vanno dalla punta di Posillipo al porto di Pozzuoli in una nuova dimensione della Napoli di ponente. Una realizzazione che riqualificava la funzione e la natura di questo enorme territorio, che si poteva e si doveva riorganizzare. Sostituire l’acciaieria con una risistemazione angusta ed introversa in se stessa è l’errore fondamentale di questa mancata politica di sviluppo. Qualcuno obietta che duecento ettari siano fin troppi, il centro direzionale di Napoli arriva a settanta ettari, un terzo di questa area. Ma la verità che quei settanta ettari sono solo un quarto di quello che si sarebbe dovuto fare e non fu fatto. Napoli non ha mai avuto, se non nei primi anni del novecento, ambizioni adeguate allo status metropolitano che avrebbe titolo per conseguire-.

Il secondo errore, forse più grave e certamente amplificatore del primo, è il fatto di aver frantumato i soggetti che dovevano attuare la trasformazione dell’area. Scendono in campo una Fondazione, finanziata dalla Regione, che progetta e realizza la città della scienza. Oggi dopo l’incendio, la fondazione è stata affiancata da società in house della regione, ma resta chiaro che quell’area, inclusa quella parte nella quale si è sviluppato l’incendio, è solo una frazione, la logica della quale risulta slegata dagli altri attori potenziali, dell’eventuale progetto di sviluppo.  Sia prima che dopo l’avvenuto e deprecabile incendio. Il Comune affianca, infatti, ai progetti di bonifica una Società di Trasformazione Urbana (STU) , gli azionisti della quale sono il comune, la provincia e la regione.

Nel 2003 una banca, selezionata con una procedura competitiva, produce una valutazione delle principali opzioni che la STU potrebbe esercitare. Acquisita larga parte dei suoli si potrebbe definire una lottizzazione coerente con la variante del PRG e mettere sul mercato i suoli perché altri valorizzatori urbani possano realizzare, per parti, la nuova edilizia da collocare nell’area. Questa opzione viene giudicata inefficiente da parte della banca che valuta i due progetti possibili. La banca advisor della STU indica, invece, come necessario un progetto integrato di analisi e realizzazione dell’intero ciclo edilizio, come la stessa natura della STU aveva in se stessa, nelle norme legislative che hanno dato vita a questo genere di società. Inoltre sarebbe stato utile allargare ai privati, anche a coloro che erano contigui alle aree di proprietà della STU, che avrebbero potuto conferirle, ed ad investitori internazionali il capitale della STU. Perché la stessa STU non si riducesse ad una mera appendice pubblica del Comune di Napoli, azionista di larga maggioranza nella pur pubblica compagine della stessa STU. Ancora un doppio errore, insomma: il principale veicolo del progetto resta tutto pubblico, nel suo azionariato, e si concentra sulla mera redistribuzione, dei suoli da edificare, ad una frammentata platea di operatori, che realizzano oggetti singoli e non una modificazione urbanistica razionale dell’are in questione.
Naturalmente si è fatto molto meno di quello che si sarebbe potuto fare e l’area risulta oggi frammentata ed ancora in attesa di una eventuale riorganizzazione adeguata alle sue potenzialità.

C’è un’ultima cosa che Borghini propone, che potrebbe essere necessaria ma non è ancora sufficiente. Chiedere ad un attore imprenditoriale (Fintecna?) di riformulare progetti ed alle istituzioni finanziarie, od all’Unione Europea, di provvedere i mezzi per la realizzazione dei progetti.

Sarebbe utile avere un unico centro di azione, e non molti attori in parallelo: Fintecna, la STU, la Fondazione e le società in house,gli operatori puntuali per singoli progetti. Ci vorrebbe anche una visione ed un team di lavoro, adeguato per le competenze maturate e le realizzazioni ottenute in altri contesti, che possa trasformare i mezzi finanziari in investimenti. Una nuova area urbana capace di generare esternalità e redditi per Napoli, le famiglie e le imprese della città. Si tratta di un lavoro veramente notevole e si sarebbe ancora in tempo per fare di questa opportunità una formidabile leva di rilancio per la crescita della città.

Ma la circostanza oggettiva, che vede una lunga stagione, dagli anni sessanta ad oggi, di radicale incapacità ed inconsistenza operativa suggerisce una grande cautela anche solo nel tentativo di immaginare l’ennesimo progetto per la trasformazione urbana di Napoli a ponente. Ovviamente analoghe considerazioni possono essere proposte per la realizzazione di una trasformazione urbana a levante. In altri termini e con altre caratteristiche. Il punto da cui ripartire, insomma, sarebbe quello di ripensare Napoli come attore del suo destino. Un piccolo esperimento, inoltre, anche questo sempre rimandato, sarebbe unificare la provincia di Napoli ed il suo comune in un unico organismo:l’Area metropolitana di Napoli. Staremo a vedere.

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