Prende forma la bad bank di Intesa Sanpaolo e Unicredit. Oggi i due gruppi bancari hanno ufficializzato il protocollo d’intesa per “sviluppare e realizzare insieme una soluzione innovativa finalizzata a ottimizzare le performance e massimizzare il valore di un selezionato portafoglio di crediti in ristrutturazione”. Una soluzione di cui si parla da tempo e la cui finalizzazione era stata anticipata ieri sera dal Financil Times che rileva come si tratta di “un raro esempio di banche europee che fanno fronte comune con alcuni dei tanti private equity e hedge fund presenti nel sistema finanziario del Vecchio Continente in cerca di opportunità per accaparrarsi asset dagli istituti di credito affamati di capitale”.
Certo, Unicredit e Intesa non vogliono sentire parlare di una vera e propria bad bank: si tratta di un accordo che riguarda crediti non ancora deteriorati senza l’intenzione di dismetterli che punta a riportare alla redditività le aziende interessate, avvalendosi proprio della consulenza di A&M specializzata nelle ristrutturazioni aziendali. Alvarez & Marsal lega infatti il suo nome alla ristrutturazione del fallimento di Lehman Brothers.
Da quando la discussione è entrata nel vivo, le sofferenze lorde del sistema bancario sono salite ancora al record di 162 miliardi. Con questa operazione sembra consolidarsi la strada di chi propende per soluzioni intraprese dalle singole banche in ordine sparso e non una soluzione di sistema. Progetto però che ancora oggi è visto da alcuni come soluzione da preferire. Settimana scorsa, il vicedirettore generale di Bankitalia Luigi Federico Signorini, intervenendo alla Camera ha riferito che la Banca d’Italia sarebbe favorevole alla messa in atto di misure di portata più generale”. “Sulla questione della bad bank, rinvio a quanto detto dal governatore – ha detto Signorini – una forte incidenza sui bilanci delle banche di crediti dubbi non è positiva e il modo di gestire questi crediti è molto importante. Vediamo con favore le iniziative da parte di numerose banche e non vedremmo male misure di portata più generale”. Anche l’Abi, l’associazione di categoria delle banche, sarebbe favorevole a una soluzione di sistema. I banchieri per la verità mettono l’accento soprattutto sui “soldi”. Per il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, “sarebbe utile una bad bank promossa dal governo che dovrebbe mettere, come negli altri paesi dell’occidente, qualche risorsa, o qualche incentivo fiscale”. Lo ha detto qualche giorno fa intervenendo alla trasmissione radiofonica Mix24 precisando che “Bisogna evitare però di realizzare una bad bank carrozzone, o una costrizione per altri, che sia una sovrastruttura rispetto alle strutture già esistenti”.
Il rischio che una soluzione di sistema, per quanto auspicabile, venga interpretata come un carrozzone era stato paventato anche qualche tempo fa su Firstonline da Adriano Bianchi, Managing Director della divisione italiana stessa società di consulenza (A&M) che sta gestendo il dossier Intesa-Unicredit-Kkr. “Parlare di operazioni di sistema – ha detto a Firstonline – però non dovrebbe voler dire garantire la sopravvivenza di tutti i soggetti coinvolti (sia sul lato creditori che su quello dei debitori) e questo, in Italia (il paese dell’Efim, delle società di Stato in liquidazione da oltre 30 anni), non è così evidente. Ci troviamo quindi di fronte a due esigenze contrastanti e difficilmente compatibili: se si fa un’operazione di sistema questa, per essere effettivamente efficace – e non essere semplicemente una speculazione finanziaria o un nuovo carrozzone che assorbe le già scarse risorse disponibili – dovrebbe essere governata con criteri privatistici ma al contempo garantire che nessuno possa rifiutarsi di partecipare”.
D’altra parte l’Italia è uno dei pochi paesi che non ha dato soldi a fondo perduto alle banche. In compesno le bad bank, dove implementate, sembrano cavarsela. Solo pochi giorni fa Nama, la bad bank irlandese, è riuscita a portare a termine la sua più grande vendita di crediti deteriorati, un pacchetto da 1 miliardo al private equity Cerberus. Sull’onda dell’impennata dell’interesse internazionale per gli asset irlandesi, ora si dibatte sulla possibilità e opportunità che Nama riesca a liquidare in modo accelerato gli asset e chiuda prima della scadenza programmata nel 2020. Il presidente di Nama, Frank Daly, ha però recentemente osservato che la chiusura anticipata non porterà i migliori ritorni per i contribuenti e che il successo di Nama è triplice: pagherà sia il debito senior sia subordinato e la prospettiva è che faccia persino un profitto. In Spagna, la bad bank Sareb dopo un avio esitante è riuscita a collezionare diverse vendite e alla fine del 2013 aveva messo insieme 3,8 miliardi di euro. Un risultato in linea con le attese, seppure segnato da una perdita a fine anno di 261 milioni di euro.