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Axel Springer o Washington Post? Due diversi modelli nella sfida ai giganti di Internet

Il più influente gruppo media europeo

Axel Springer SE, fondato nel 1946 ad Amburgo, è il più grande editore europeo di giornali. È attivo in 40 paesi, ha un giro d’affari di 3 miliardi di euro, dà lavoro a 14mila persone e tra le sue testate ci sono “Bild”, “Welt” e “Fakt”. Le tre testate hanno una circolazione giornaliera di oltre a sei milioni di copie. Nella sola Germania Axel Springer ha il 23,6% del mercato dei giornali. Una posizione che è un sogno per gli altri editori europei e anche d’oltreatlantico.

Axel Springer sta assumendo un ruolo centrale nel panorama dei media europei e si configura come il gruppo media europeo con la maggiore influenza politica. Questa posizione di preminenza si deve a Mathias Döpfner, il giovane, energico e dinamico CEO e presidente di Axel. Döpfner è una felice eccezione a paragone dei catatonici leader europei dell’industria dei media.

Infatti il cinquantaduenne manager originario di Offenbach am Main, con un fisico da cestista, è il più tosto e risoluto oppositore delle società Internet della Silicon Valley che stanno tirando su dei monopoli sul concetto di OTT (Over The Top). Costruiscono ed espandono servizi di enorme utilità e richiamo sopra i contenuti e le infrastrutture sviluppate da altre imprese (gli incumbents). Gli incumbents si trovano, così, nella scomoda posizione di avere gli OTT come partner importanti ed essenziali del loro business. James Murdoch, che prenderà presto la guida dell’impero mediatico del padre Rupert, ha definito gli OTT dei “frenemy” (friend + enemy), un termine divenuto di uso così frequente che Wikipedia gli ha dedicato una voce specifica. Sono friend, perché gli incumbents non possono prescindere dagli OTT per accrescere la loro presenza sui nuovi media ed enemy perché gli OTT gli stanno sottraendo il controllo della parte più interessante del business. Si tratta di un processo di sostituzione descritto bene dal professore di Harvard Clay Christensen nelle sue teorie sulla digital disruption. Si capisce che essere dalla parte di quelli che subiscono la “disruption” non è piacevole.

È per questa ragione che il concetto OTT è anatema per Döpfner, a tal punto che il “Guardian” ha scritto “Mathias Döpfner is a man on a mission… it’s a spectacle to behold” (Döpfner é un uomo con una missione… Uno spettacolo per gli occhi). Si dà anche il caso che il capo di Axel sia tra le cinque persone più influenti in Europa. È rinomata la sua capacità di influenzare il governo tedesco in tutte le sue parti politiche. Si dice che Jean-Claude Juncker deve a Döpfner la presidenza della Commissione europea dopo che un articolo di Döpfner sul “Bild” ha spazzato via i tentennamenti del governo di Berlino preoccupato dell’opposizione di David Cameron alla nomina dell’ex-premier lussemburghese a capo della Commissione.

Döpfner e i nuovi media: law&order

Döpfner non è ostile ai nuovi media o un nostalgico dei bei tempi andati in cui le cose avevano un ordine preciso, non come succede ora con società liquida. Tutt’altro: Döpfner è un fautore convinto dei nuovi media e infatti Axel Springer, grazie anche al dinamismo del suo capo, sta traghettando ordinatamente e senza troppe turbolenze verso il nuovo modello economico e tutte le sue attività in questo nuovo ambiente sono sostenibili e remunerano gli azionisti.

La visione di Döpfner del passaggio dei media al digitale e il modello di relazioni a cui aspira, però, è molto differente da quella degli “innovatori” della Silicon Valley che sono l’iceberg degli OTT. È proprio la differente visione tra “innovatori” e “incumbents” che ha fatto esclamare a Tim Cook, CEO di Apple, che tra i due club c’è un “muro di Berlino, non si rispettano e non si capiscono”.

Disruption è una parola non esiste nel lessico di Döpfner e un panno rosso per Axel Springer. Il gruppo tedesco si muove affinché il necessario passaggio dei media al digitale avvenga senza alcuna disruption e soprattutto sia gestito e controllato dagli incumbents non dagli innovatori che dovranno parteciparvi come ancillari ai primi. Non è solo un fatto di mero business, è un fatto che riguarda l’assetto sociale e il benessere delle nazioni europee che non vogliono essere messe a soqquadro da giovani imprese arroganti e irrispettose delle regole che vigono nei luoghi dove operano. Solo tenendo al guinzaglio gli innovatori, il livello di occupazione, il benessere, la ricchezza pubblica e la morale dell’industria dei media possono essere mantenuti. Si tratta di un comparto economico strategico in tutte le economie europee già duramente provate dalla crisi finanziaria e dalla perdita di posti di lavoro. Questo punto di vista di Döpfner, prima si è esteso al governo tedesco, poi al gruppo dei paesi nordici e infine, con la commissione Junker, è divenuto la politica ufficiale dell’Europa verso Internet e i nuovi media.

Facebook, da freenemy ad amico?

Lasciato alla sera questo scenario, si capirà lo stupore, al mattino, di trovare “Bild”, il maggior quotidiano di Axel Springer, (citato per ultimo) nella lista delle nove testate partecipanti alla nuova sperimentazione di Facebook, chiamata Instant Articles. “Bild” si trova in compagnia di altre grandi testate: “New York Times”, “National Geographic”, “BuzzFeed”, “NBC News”, “The Atlantic”, “The Guardian”, “BBC News” e “Spiegel”. Le testate che partecipano al programma Instant Articles inizieranno a pubblicare direttamente i loro articoli nel feed delle news dell’applicazione di Facebook per iPhone. A breve arriverà anche l’app per Android. Si tratta di articoli integrali con foto e video che l’utente potrà leggere, commentare, annotare e condividere direttamente in Facebook senza necessità di trasbordare sulla relativa pagina della testata.

Facebook, che già è la fonte del 20% del traffico del “Guardian”, del 15% di quello del “New York Times” ed è utilizzato dal 39% degli americani per informarsi, ha convinto gli editori che gli otto secondi che occorrono per passare da Facebook alla pagina del quotidiano provocano una significa dispersione di traffico e fanno sì che molti potenziali lettori dell’articolo si accontentino di scorrere i titoli sul feed di Facebook, rinunciando a procedere oltre. Con Instant Articles gli articoli sono pubblicati su Facebook in un formato accattivante. Inizialmente saranno pochi, a confronto dei 300 articoli che, per esempio, pubblica il NYTimes giornalmente. Se il servizio funziona, cresceranno parecchio. Mark Thompson, CEO del quotidiano di New York, ha dichiarato che il programma di Facebook darà ai giornali “accesso a un nuovo bacino di utenti, gente che scoprirà il nostro giornalismo, che così potremo monetizzare con la pubblicità”.

Resa agli OTT o tattica più avanzata?

I termini dell’accordo economico tra giornali e Facebook è favorevole agli editori. Gli editori, infatti, potranno vendere la pubblicità all’interno dei propri articoli tenendone tutti i ricavi. In alternativa potranno chiedere a Facebook di collocare gli eventuali spazi invenduti per i quali riceveranno il 70% del ricavato. Gli editori avranno la possibilità monitorare i dati e il traffico tramite comScore e altri strumenti di analisi resi disponibili dal social media.

Una possibile conseguenza negativa di questo tipo di ricollocamento dei contenuti è che i siti e le app dei giornali potrebbero perdere centralità per diventare dei luoghi frequentati dagli abbonati o, peggio, repository di contenuti. C’è però un altro aspetto importante da sottolineare, un aspetto sul quale può avvenire il primo passo per far uscire i grandi giornali dell’epoca dei mass media dalla palude in cui si trovano. Sembra che finalmente gli editori si siano convinti di un truismo: che bisogna stare dove c’è la folla e che l’investimento maggiore deve essere fatto sul prestigio della testata, sulla qualità dei contenuti e sulla capacità di farsi intercettare dall’opinione pubblica e dai decision maker. A questo proposito Mark Thompson ha dichiarato a “Mashable”:

Ci interroghiamo continuamente sui rischi e i benefici di collocare i nostri contenuti su piattaforme diverse dalla nostra. I benefici della presenza su piattaforme gestite da altri stanno tutti nella possibilità di avere una circolazione più grande di quella che potremmo mai realizzare con la nostra sola offerta digitale. Parafrasando il motto della “Old Lady”, “Mashable” ha commentato così le parole di Thompson “All the news apps that are fit to print”.

Anche se tutto ciò potrebbe apparire, come appare a Murdoch che si è tenuto a debita distanza dal programma di Facebook come pure il gruppo Pearson (“The Financial Times” e “The Economist”), una resa agli OTT, Instant Articles non è un’idea malvagia e neppure un deal terribile per gli editori. Quest’ultimi, infatti, raggiungono i tre obiettivi a cui tengono maggiormente: 1) controllare al 100% il proprio contenuto e i suoi utilizzi sulla rete; 2) raggiungere un’audience che non possono raggiungere con i loro mezzi e infine 3) ottimizzare la monetizzazione dei flussi Internet che sono ancora lontani dal compensare le perdite delle attività tradizionali. Non è neppure da trascurare la possibilità che Instant Articles possa mettere in difficoltà altri e sgraditi aggregatori di informazione come Google News o Yahoo News che arrivano, prendono, pubblicano senza neppure salutare.

Torniamo ad Axel Springer. Perché “Bild” è in Instant Articles? Perché questo programma non è, ma si avvicina alla visione di ancillarità degli OTT di Döpfner e alla sua presa d’atto di non poter competere alla pari con gli OTT nella costruzione di un’audience massiva. Non potendo riuscire in ciò, occorre “ritirarsi” per concentrarsi su un punto: mantenere il controllo del contenuto e del business correlato nelle sue molteplici derivazioni. È quello che succede proprio con Instant Articles.

Ci sono molte azioni da fare per tenere il controllo del business. La prima riguarda la capacità di innovare prodotti, processi, management, pratiche commerciali ed effettuare le acquisizioni corrette. Una fase che Axel Springer ha già positivamente avviato. La seconda consiste nel riuscire a influenzare il quadro legislativo e normativo così da creare un mercato favorevole agli incumbents e avverso agli innovatori. Anche in questo caso il gruppo tedesco sta eccellendo e l’Europa sta diventando un territorio ostile per la Silicon Valley. La terza azione è quella che conduce in un’area nuova, inesplorata e scivolosa, quella degli accordi, delle alleanze e delle sinergie con i gruppi che hanno in mano le leve della nuova economia: Google, Apple, Amazon e Facebook. È su questo punto che Axel Springer sta passando dallo scontro in campo aperto e totale a una tattica che somiglia molto a quella dei romani alla seconda guerra punica.

Apple News

Siamo curiosi di vedere, quando il servizio sarà aperto anche in Europa oltre che in USA, UK e Australia, come Axel Springer si comporterà nei confronti della app per iOS “Apple News”, preinstallata su tutti i dispositivi della casa di Cupertino dall’ottobre 2015. Al pari di Instant Articles, Apple News mira a offrire agli editori una vetrina di lusso nella quale esporre contenuti prodotti dal loro staff. Non saranno però i direttori delle testate a scegliere gli articoli da pubblicare su “Apple News” e neppure lo farà un algoritmo di ranking, ma sarà uno staff di curatori della Apple che provvederà a selezionare i contenuti, pubblicando i più originali, autentici e rilevanti.

Apple News mira a offrire ai possessori di iPhone e IPad interessati all’informazione e all’attualità un servizio che li liberi dal rumore, dalla ripetitività e dall’omologazione che sono alcune delle più irritanti caratteristiche di Internet. Che ci sia un servizio operato da una società come Apple volto a recuperare il giornalismo di qualità e a diffonderlo attraverso i suoi canali è qualcosa che può senz’altro rientrare nel campo visivo e nella strategia di Axel Springer. Ma ci dovranno essere altre condizioni perché il gruppo media tedesco possa aderire. Ancora non si conoscono tutti i dettagli economici di “Apple News” e non sappiamo con certezza in che modo gli editori saranno compensati; un punto che sta parecchio a cuore a Döpfner.

Stando a quando dichiarato sulla pagina del sito Apple dedicata agli sviluppatori, il modello di distribuzione dei ricavi tra editori ed Apple è lo stesso di Instant Articles: 100% per la pubblicità raccolta dagli editori, 70% per quella veicolata da iAd di Apple. Il problema centrale della Apple con gli editori non è tanto la distribuzione delle revenue derivanti dagli affari fatti in comune, quanto la indisponibilità della Apple a condividere con gli editori i dati dei clienti che si abbonano al servizio o acquistano un prodotto sui negozi della mela. Questo “niet” è inaccetabile per Axel Springer e una degli aspetti sui quali il gruppo tedesco sta facendo lobby a Bruxelles affinché venga regolamentato.

Recentemente sono uscite delle indiscrezioni, riferite dal “Financial Times”, che Apple intende rivedere gli accordi con i partner per renderle più favorevoli a questi ultimi. Questa decisione dovrebbe riguardare sia le condizioni economiche, sia quelle che riguardano la condivisione con gli editori delle informazioni sui clienti. Un passo che è senz’altro nel campo visivo di Tim Cook che si è molto ammorbidito rispetto al suo predecessore, Steve Jobs, sulla questione della relazioni con le terze parti che alimentano l’ecosistema Apple.

Chi non ha bisogno degli OTT

Ci sono delle testate d’informazione native digitali che, a differenza degli incumbents, non hanno bisogno di Facebook come quarta zampa del tavolo. Per loro Facebook, i social media e gli aggregatori d’informazione sono risorse importanti, ma anche risorse veramente ancillari alla loro strategia che consiste nel canalizzare la maggior quantità di audience sulle pagine della testata. A questo scopo Facebook & Co. sono un veicolo importante, ma non tale da consegnarli le chiavi di casa.

Parliamo di “Vice media”, “Vox Media”, ma anche di “Huffington Post”, “Mashbale”, “BuzzFeed”, “Reddit”, “Gawker” si sono conquistati uno ruolo importante nello spazio digitale grazie alla loro capacità di saper confezionare l’informazione in modo innovativo e di saperla agganciare ai meccanismi di diffusione virale dei contenuti sulla rete. Una capacità che gli incumbents non hanno mai saputo esprimere appieno come, in effetti, ha denunciato un documento interno della redazione del NYTimes del maggio 2014 che ha suscitato un bel clamore.

E il mercato ha premiato questa capacità delle nuove testate native digitali: nell’agosto del 2014 “Vice Media” è stato valutato 2,5 miliardi di dollari, ben sopra la valutazione di mercato del NYTimes che oggi non supera i 2 miliardi di dollari. Nell’agosto 2013 Jeff Bezos ha acquistato il “Washington Post”, una testata con un secolo e mezzo di vita, per appena 250 milioni di dollari quando Vox Media, diretto da Ezra Klein ex-“Washington Post”, dopo appena 10 anni di attività ha ricevuto una valutazione doppia del quotidiano dello scandalo Watergate. Ma quest’ultimo, dopo l’uscita della famiglia Graham e l’arrivo del fondatore di Amazon, si sta prendendo una meritata rivincita e sta mostrando quale potrebbe essere il modello da seguire per continuare la tradizione del giornalismo di qualità e accrescere il valore dell’impresa.

Il modello aperto del “Washington Post”

Il Post è veramente salpato e il suo equipaggio è al picco della motivazione. Il suo armatore, Jeff Bezos, non gli sta facendo e non gli farà mancare le risorse che occorrono per completare il viaggio. Le azioni del Post ruotano intorno al progetto di rendere disponibili, tramite il software sviluppato dalla testata, i propri contenuti e i propri servizi a chiunque li voglia. Per raggiungere questi obiettivi il Post si propone di diventare una vera e propria impresa tecnologica. Ecco che Bezos ha riempito di sviluppatori software e d’ingegneri un intero edificio a Reston in Virginia. Senza naturalmente trascurare di rafforzare la redazione sulla 15ma strada a Washington DC: 100 nuovi giornalisti si sono aggiunti allo staff esistente.

Da poco il Post ha varato un programma chiamato “Partner”. Partner offre agli abbonati dei giornali aderenti al programma, l’accesso gratuito ai contenuti del Post a condizione che immettano il proprio indirizzo e-mail. Fino ad oggi qualcosa come 270 testate hanno aderito al programma. Il traffico sul sito del Post si è impennato salendo a 51 milioni di utenti unici al mese. Grazie alla profilazione, gli utenti delle altre testate stanno lasciando indizi importanti sui propri comportamenti di lettura e di navigazione che vanno a costituire i big data analizzati dallo staff di sviluppatori di Reston e quindi resi disponibili ai pubblicitari.

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Un altro progetto a cui sta lavorando il team tecnologico di Restin è lo sviluppo di un sistema per la gestione dei contenuti dei giornali. Come è successo con Amazon Web Service, il CM del Post sarà dato in licenza a chiunque lo richieda oltre a motorizzare tutti i contenuti del Post. Il primo cliente sarà proprio Amazon che includerà il “Washington Post” nell’abbonamento Prime. Un’apposita app, Rainbow, con notizie nazionali e internazionali selezionate dalla redazione del giornale sarà preinstallata su tutti Kindle Fire. Tutti questi progetti non andranno a gravare sulle risorse e i programmi della redazione di Washington DC che è chiamata a dare carburante a tutto questo variegato sistema di servizi e prodotti. Che la perdita del controllo temuta da Döpfner sia proprio una forma superiore di controllo, quella del Post, appunto?

 
 
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