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Avvocati e competitività dei mercati

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Vi sono vari punti di vista dal quale il rapporto tra professioni legali e competitività può essere visto.

In primo luogo l’influenza della funzionalità del sistema giuridico, inteso come sistema di norme e di meccanismi di loro applicazione, rispetto al funzionamento dell’economia. Qui sappiamo che il nostro paese è molto in ritardo: sia come qualità delle norme, sia come sistema di enforcement. Anche se la causa di ciò non è direttamente imputabile all’avvocatura, ma a confusione normativa (esempio: moltiplicazione dei riti; confusione sulla competenza – concorrenza quattro differenti sedi civili) e insufficienze amministrative (dalla distribuzione delle sedi giudiziarie alla carenza di organici e di risorse), essa può svolgere un ruolo importante di pressione e stimolo.

In secondo luogo la capacità del sistema giuridico di rappresentare esso stesso una fonte di nuove opportunità per coloro che operano nel settore e per il sistema economico. Penso in particolare, in un mondo integrato, alla capacità di proporsi come foro privilegiato per la composizione di controversie di particolare complessità (esempio nel mio settore, la giurisdizione inglese come foro per le controversie relative al danno antitrust). Entra la lingua, la celerità delle procedure, ma anche la propensione a cogliere occasioni.

Infine, la capacità del sistema giuridico di contribuire esso stesso alla crescita e alla competitività del sistema economico, fornendo ad imprese e famiglie servizi di qualità in maniera efficiente.

Io vorrei soffermarmi in particolare sull’ultimo aspetto, che naturalmente chiama in causa l’assetto della professione e le prospettive di riforma: tenendo però presente che a mio giudizio questo assetto non è indifferente anche per quel che riguarda gli altri aspetti, e in particolare le scelte che l’avvocatura, come rappresentanza professionale, propone all’opinione pubblica, al legislatore e al governo.

Vorrei in primo luogo osservare che, parlando di assetto e riforma della professione forense, è essenziale uscire da una visione strettamente nazionale: il tema dell’adeguamento dell’ordinamento delle regole delle professioni legali si è posto negli ultimi decenni in tutti i Paesi ed è la conseguenza dell’evoluzione e della crescente complessità delle questioni che hanno accompagnato lo sviluppo delle relazioni economiche e sociali.

Vari fattori contribuiscono a determinare una continua evoluzione della nostra professione: la crescita esponenziale di quello che possiamo chiamare il “traffico giuridico”; l’emergere di nuove questioni, dal diritto dell’economia ai diritti della persona; la conseguente esigenza di specializzazione; l’emergere di nuove tipologie di offerta, rappresentate anche da nuove professioni economico-giuridiche; la possibilità di riorganizzare le modalità di offerta di servizi che sono diventati standardizzati e ripetitivi; l’articolazione della domanda, che in varie aree e settori è caratterizzata da soggetti come le imprese che sono in grado di valutare i professionisti e le loro proposte; l’integrazione e l’ampliarsi del mercato al di là degli spazi nazionali.

In questo più complesso contesto le regole che tradizionalmente hanno governato la professione possono rimanere immutate o non devono piuttosto essere aggiornate? E in particolare, in questo quadro, fino a che punto le regole che prevengono il funzionamento del mercato e in particolare la concorrenza tra professionisti all’interno della stessa professione e tra diversi tipi di professione possono ancora essere considerate attuali e quanto invece devono essere riviste alla luce del mutato contesto?

E’ bene forse fare un passo indietro, e chiedersi perché questi limiti sono stati posti.

In primo luogo, per una visione della professione incentrata sulle finalità di interesse pubblico che essa persegue, in particolare sulla sua centralità nell’assicurare il funzionamento della giustizia a norma dell’Art. 24 della Costituzione, la quale giustifica il trattamento particolare delle attività professionali legali e che suggerirebbero che questa attività sia sottratta alle pressioni concorrenziali che potrebbero limitare l’indipendenza di giudizio e la qualità nella prestazione dell’avvocato: visione che è alla base dell’affermazione che la professione legale non è attività d’impresa e che essa non può essere configurata come un’attività economica.

Si tratta di un’impostazione che certamente ha fondamento nelle origini della storia dell’attività forense, ma che deve essere re-interpretata alla luce dell’evoluzione del contesto giuridico e economico.

Per quel che riguarda il contesto giuridico, rilevano in particolare le previsioni del diritto comunitario, che incidono per almeno due profili.

Da un primo punto di vista, in relazione alle libertà di prestazione di servizi e di stabilimento, in quanto stabilisce il diritto di chi è abilitato a svolgere un’attività in un paese membro a svolgerla e a stabilirsi in tutti i Paesi dell’Unione, e per la nostra professione fissa anzi discipline comuni. E questo principio pone in questione anche molti dei vincoli al funzionamento del mercato che possono caratterizzare l’ordinamento nazionale (caso Cipolla e tariffe massime), in quanto abbiano effetto su queste libertà.

Da un secondo punto di vista in quanto secondo il diritto comunitario i servizi legali, per quanto finalizzati ad un interesse pubblico, rappresentano pur sempre un’attività economica e in quanto tali sono soggetti alle regole che vengono fissate per i soggetti economici, le imprese. Le eccezioni rispetto a queste regole devono essere giustificate dalle finalità di interesse generale perseguite e devono essere ad esse proporzionali.

Per quel che riguarda il contesto economico, l’impostazione tradizionale è basata sul timore che la concorrenza possa avvenire a scapito della qualità. Tuttavia, il mercato si evolve, si modificano le tipologie dei soggetti, e le modalità contrattuali e di fornitura del servizio legale: regole che potevano sembrare adeguate in un contesto di una società agraria o di piccola industria, e con studi di carattere familiare, possono non esserlo più in una società molto più articolata, con soggetti in grado di informarsi e con una vasta articolazione dell’offerta di servizi legali da parte di soggetti che possono creare una propria reputazione. In questo contesto la concorrenza può fornire uno stimolo potente di selezione e miglioramento della qualità: favorendo la specializzazione e il confronto, suggerendo modi nuovi di offrire il servizio.

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Queste considerazioni non si applicano solo all’attività forense, ma a tutte le professioni. In particolare, il ruolo cruciale delle attività legali ha fatto sì che negli ultimi decenni in quasi tutti i Paesi si sia molto discusso circa le regole che presiedono al funzionamento dell’attività forense e ai limiti che esse pongono al funzionamento del mercato della concorrenza.

Questa revisione ha riguardato varie questioni: l’ampiezza del ruolo da attribuire agli organi di auto-regolamentazione, le esclusive; i criteri di accesso alla professione; le tariffe; gli altri vincoli alla concorrenza, in particolare la pubblicità; le forme di organizzazione della professione, in particolare la forma societaria. Su alcuni di questi temi vorrei soffermarmi di seguito, per poi concludere con alcune osservazioni sul processo in corso nel nostro paese. Questi aspetti non possono essere considerati singolarmente ma come componenti di un processo complessivo di riforma:

1. Autoregolamentazione  – In primo luogo, in molte giurisdizioni è in discussione lo stesso ruolo dell’auto-regolamentazione, la forma tradizionale con cui in tutti gli ordinamenti gli ordini e le associazioni professionali riconosciute fissano le regole per lo svolgimento della professione e ne assicurano il rispetto. In genere si è riconosciuto che i meccanismi di auto-regolamentazione presentano molti vantaggi: la conoscenza della materia e delle sue problematiche, vantaggi informativi, flessibilità nell’intervento e costi più ridotti.

Ma esistono anche degli svantaggi: in particolare, il rischio che la regolamentazione acquisti un carattere prevalentemente protettivo e possa svilupparsi senza sufficiente riguardo alla tutela dei terzi, sia in termini generali, attraverso per esempio lo stabilimento di regole di condotta che irrigidiscono il mercato, quali i divieti di pubblicità o le modalità di determinazione delle tariffe, sia in termini specifici, in particolare nel loro ruolo di tutela di garanti della deontologia professionale: c’è una tendenza degli esponenti della “corporazione” a proteggere i suoi membri?

E’ una riflessione che per esempio in Gran Bretagna ha condotto ad una riforma dei meccanismi di garanzia che ha condotto ad una notevole trasparenza e alla presenza di soggetti terzi nei meccanismi di controllo, soggetti terzi che si trovano tradizionalmente in altre giurisdizioni di assetto più tradizionale. In Italia, proposte in questo senso sono state fatte dall’Autorità Antitrust già negli anni ’90, in relazione tanto agli organismi di controllo quanto alle modalità di accesso.

La mia impressione è vi sia una correlazione tra la sensibilità della professione alle esigenze degli altri interessi, e la sua capacità di rivendicare l’esigenza di elevati standard qualitativi esercitati responsabilmente rispetto al cliente.

2. Le esclusive e la concorrenza interprofessionale – Una delle proposte contenute nell’indagine conoscitiva condotta nel 1997 dall’AGCM era la revisione delle esclusive professionali, da due punti di vista: esaminare quali attività fossero effettivamente di interesse pubblico, e quindi meritevoli di riserva alle professioni regolamentate (riserva), e quindi in che misura dovessero essere sottratte alla concorrenza interprofessionale (esclusiva).

Io credo che questa proposta indichi una giusta direzione.

Sembra esservi poco dubbio che la assistenza in giudizio richieda una competenza esclusiva. E tuttavia, la questione può porsi e si è posta in relazione alla tipologia di giudizio, alla dimensione dell’affare, alle tipologie di procedimento Giurisdizioni senza obbligo di difesa legale (giudice di pace fino a euro; media-conciliazione).

Ma questione delle esclusive riguarda prevalentemente la concorrenza interprofessionale: intanto nel campo della consulenza. Lo sviluppo di professioni legali specifiche, dai commercialisti ai consulenti del lavoro, ai consulenti di previdenza, nonché l’ammissibilità di consulenze su base occasionali anche da soggetti qualificati non appartenenti a professioni protette, sancita dalla Cassazione, appare una soluzione più ragionevole rispetto alla stretta riserva che si propone da parte di buona parte dell’Avvocatura di introdurre.

Ma la concorrenza interprofessionale e la revisione dell’attività riservata può anche tornare a vantaggio dell’avvocatura. Ci si può chiedere se le esigenza di tutela, per esempio della certezza del traffico giuridico, nel caso dei notai, non possano essere attenuate per certi tipi di transazioni, ovvero se lo sviluppo di tecnologie informatiche sofisticate non ponga in discussione l’esclusiva dei consulenti del lavoro. Si potrebbero così aprire spazi di concorrenza interprofessionale.

3. I vincoli alla concorrenza intraprofessionale: tariffe e pubblicità – Nell’ambito della discussione sull’autoregolamentazione rientrano anche quella sulle tariffe e sulla pubblicità, su cui si è accentrata la polemica nell’ultimo periodo. Al riguardo, poiché almeno per le tariffe la questione sarà oggetto di discussione nelle prossime settimane, forse è opportuno fissare qualche punto.

In primo luogo, le tariffe. La definizione di tariffe massime o minime non è una caratteristica necessaria dell’attività professionale. Non esiste un tariffario in Francia, in Gran Bretagna o in Spagna.

In secondo luogo, la fissazione di tariffe ricade nell’ambito della normativa di libera concorrenza: data la definizione comunitaria delle professioni come attività economica e degli ordini come associazioni di professionisti, la fissazione di condizioni economiche, inclusi tariffe e attività informativa, da parte degli ordini, che rappresentano le associazioni di imprese, rappresenta un’infrazione alle norme di concorrenza. Anche se la fissazione di tariffari da parte della Pubblica Amministrazione, come ha precisato la Sentenza Arduino, è compatibile con la normativa della concorrenza qualora essa sia necessaria e proporzionale rispetto alle finalità di interesse pubblico perseguite dalla normativa, e in particolare siano necessarie per garantire la qualità della prestazione e la tutela dei diritti.

Tuttavia, la normativa sulla concorrenza non è l’unica normativa comunitaria a cui la determinazione dei tariffari è soggetta. Non meno rilevanti sono le normative relative alla libertà di prestazione di servizi e di stabilimento: nella Sentenza Cipolla la Corte di Giustizia Europea ha argomentato che tariffe minime limitano in principio la libertà di prestazione di servizi poiché impediscono ad operatori degli Stati Membri di avvantaggiarsi della loro efficienza. La stessa Corte non ha ritenuto che tariffe massime presentino lo stesso rischio anche se dal punto di vista della concorrenza potrebbero essere considerate restrittive in quanto diano luogo ad un’informazione sulle prestazioni del servizio.

Al di là delle considerazioni giuridiche, occorre chiedersi in realtà in che misura si debba ritenere che la fissazione delle tariffe sia giustificata nell’attuale contesto economico. L’impostazione tradizionale è basata sull’idea che la valutazione dell’attività professionale non può essere effettuata agevolmente dal mercato, poiché è molto difficile, in una condizione di asimmetria di informazione per il cliente, apprezzare la qualità del servizio e il meccanismo di mercato può condurre a deterioramenti nella qualità.

Da questo punto di vista occorre superare l’idea di un mercato delle prestazioni legali uniforme, per il quale tutto si pone un’esigenza di evitare problemi informativi che diano luogo a deterioramento nella qualità del servizio. In realtà si possono identificare differenti segmenti.

C’è un mercato in cui operano imprese e studi professionali in cui chiaramente i soggetti che acquistano servizi effettuano una scelta ben informata sulla base di considerazioni di mercato, mentre gli studi che li offrono cercano di qualificarsi, siano essi grandi network o boutiques, attraverso una connotazione specifica dei loro servizi. Non mi pare che in questo mercato vi siano problemi da risolvere attraverso la fissazione delle tariffe.

D’altronde, problemi possono porsi per una clientela meno specializzata, in cui tuttavia l’apertura del mercato dell’informazione, e magari modalità nuove di offrire il servizio, magari estendendo anche l’accesso alla consulenza, possono rendere non più necessario il ricorso alla tariffa vincolante. Certo, per questa clientela potrebbe invece essere utile una tariffa di riferimento, non vincolante, che possa addirittura facilitare il confronto di un’utenza dispersa che magari ha difficoltà nel raccogliere informazioni. E ciò specie in aree di grande rilievo sociale come nel diritto di famiglia o del lavoro.

Al riguardo, le autorità di concorrenza tendono a guardare con ostilità anche le tariffe di riferimento, ed esistono vari casi di procedimenti intrapresi al riguardo, sia in Italia che in Francia. Tuttavia, una riflessione potrebbe essere proposta, se si uscisse da una posizione di assoluta negazione del confronto.

Le stesse considerazioni possono farsi per Il divieto di pubblicità delle prestazioni che è tradizionalmente connesso, in tutti gli ordinamenti, al carattere non economico delle prestazioni professionali, e alla opportunità di limitare quindi la concorrenza tra gli studi.

Naturalmente in relazione a questo tema si pongono delicate questioni circa il tipo di informazioni che possono essere diffuse e la correttezza della pubblicità. L’abolizione del divieto nel nostro ordinamento, avvenuta nel 2006, riflette tendenze già attuate negli altri ordinamenti comunitari, anche se l’interpretazione circa i limiti dell’informazione è assai diversa nei diversi ordinamenti. L’interpretazione che ha dato il Consiglio Nazionale Forense della normativa sembra tutto sommato rappresentare un giusto equilibrio.

4. Gli accessi – Io direi che l’acceso deve essere aperto ma assai selettivo. E da questo punto di vista, il tema mi sembra proprio essere per la nostra professione se il sistema italiano sia sufficientemente selettivo. Con l’eccezione del sistema spagnolo, gli altri ordinamenti prevedono meccanismi di forte selezione nell’accesso alla pratica forense o alla stessa università. I meccanismi di accesso sono poi non meno selettivi di quelli che caratterizzano il nostro Paese.

Però, se si rivendica la selettività, occorre anche affrontare in maniera coerente la questione del tirocinio, che finora nel nostro Paese avviene in maniera assai meno strutturata che non in altri ordinamenti e non garantisce ai praticanti forme di compenso. Le recenti proposte tendono ad abbreviare il tirocinio e a consentire che parte di questo sia svolto durante gli studi universitari. In realtà, il sistema italiano è l’unico che richiede la preparazione universitaria di cinque anni, mentre in genere il periodo universitario richiesto è più ridotto e pari a quattro anni. Sembrerebbe allora ragionevole che parte della pratica si svolgesse durante il periodo di studi: il punto è che le strutture universitarie appaiono al momento del tutto impreparate a gestire un compito di questo genere.

Infine la questione dell’accesso si pone anche in relazione al rientro nella professione di chi decida di svolgere l’attività in un’impresa nell’amministrazione.

5. Che organizzazione per l’avvocatura? – Lo sviluppo dell’ambiente economico e sociale pone la questione del carattere che deve avere la professione legale. Tradizionalmente l’avvocatura è vista come un’attività su scala individuale: l’avvocato è un artigiano o un artista, se si preferisce, della professione. La crescente complessità e diversificazione dei problemi che affronta l’avvocatura richiede tuttavia un passaggio verso l’attività maggiormente connotata da specializzazione e l’organizzazione.

Lo sviluppo di organizzazioni professionali complesse, con centinaia e a volte migliaia di avvocati, è caratteristico non più solamente dei paesi anglosassoni ma anche di molti paesi continentali. Si tratta di realtà che rispondono ovviamente all’obiettivo di fornire una gamma di servizi vasta, su vari settori, con presenze o collegamenti internazionali, che agevolano le imprese sui mercati, ed insieme creano una reputazione di qualità che possa essere riconosciuta dai clienti in vari contesti territoriali.

Naturalmente, la crescita dimensionale degli studi non è un fatto ineluttabile: anche nell’area del diritto d’impresa vi sono realtà di dimensioni più limitate o singoli professionisti che nel loro settore godono di altissima reputazione. Tuttavia il punto è che le modalità di svolgimento della professione legale dovrebbero essere tali da consentire la più vasta gamma di modalità organizzative. Tra queste, la possibilità di svolgere l’attività non solo associandosi con avvocati, ma con figure professionali non necessariamente regolamentate.

Queste considerazioni spiegano l’accento posto dalle riforme in atto nel nostro Paese e altrove sulle società di professionisti. L’organizzazione societaria rappresenta in realtà un’opportunità di articolazione e rafforzamento della struttura tradizionale degli studi che personalmente ritengo di grande rilievo. Pone il problema del rapporto tra soci ed altri professionisti e la questione tutta prospettiva della possibilità che alla società collaborino professionisti con rapporti di collaborazione stabile: in una prospettiva che potrebbe essere considerata favorevolmente per esempio dai professionisti più giovani.

Si pone inoltre il problema dell’accesso alla società di capitali di soci non professionisti e in particolare di soci di capitale. E’ chiaro che questo offre opportunità interessanti per il rafforzamento patrimoniale degli Studi e per questa via per finanziare l’espansione. Tuttavia si pone il delicato bilanciamento degli obblighi di riservatezza e indipendenza dei professionisti e gli interessi del socio di capitale. E’ ben possibile che questi non siano tra di loro incompatibili: ma in principio non vedo grandi vantaggi nello spingere l’Industrializzazione dell’avvocatura fino a farne attività di puro investimento capitalistico.

6. Conclusione: il progetto di riforma e la situazione attuale – Vorrei concludere spendendo qualche parola sul processo di revisione della normativa relativa alle professioni legali nel nostro paese: del quale il minimo che può dirsi è che riveli un problema di metodo: sostanzialmente appare guidata da iniziative estemporanee (anche apprezzabili) piuttosto che da un disegno complessivo.

D’altronde questo sembra dipendere anche dai modi in cui il dibattito sul tema si è andato sviluppando nel nostro paese negli ultimi quindici anni, da quando, nel 1997, l’AGCM completò la sua indagine conoscitiva, in cui proponeva una revisione complessiva del sistema delle professioni, rivedendo criteri di esclusiva, criteri di regolazione e limiti al funzionamento del mercato.

Seguivano alcune proposte di riforma complessive del sistema delle professioni, che non avevano seguito parlamentare. Si avviava invece una riconsiderazione della normativa relativa alla professione forense, che risale al 1933, anche su impulso dell’avvocatura. Tuttavia il testo che è stato infine approvato dal Senato lo scorso anno, e che largamente riflette le istanze degli organismi professionali, appare aver preso una posizione molto conservatrice e di difesa dello status quo. In estrema sintesi, mi pare che sostanzialmente rifletta una visione alquanto arcaica della professione, centrata ancora sul professionista individuale, in un contesto assai poco aperto agli sviluppi esterni.

Il disegno di (quasi) legge appare ora messo in profonda discussione dalle misure che a partire dallo scorso luglio questo governo e il precedente hanno impostato, in particolare per quel che riguarda tariffe, pubblicità, durata del tirocinio, conseguente accesso alla professione e forma organizzativa, passibile di estendersi al società di capitali a controllo di socio capitalista, necessità per gli ordini di adeguare le proprie previsioni entro un termine breve al dettato normativo.

Si tratta, come detto, di misure che identificano una direzione, ma non rientrano in una visione sistemica di riforma delle attività professionali.

Si tratta allora di vedere come la professione possa porsi rispetto alla sfida posta dal legislatore: se, come sembra, in una posizione esclusivamente oppositiva, contando sulle alleanze politiche che possano dar luogo a passi indietro. O non voglia piuttosto cogliere l’occasione per orientare la riforma verso un diverso ruolo e prospettiva della professione. Che induca a una più generale riflessione sui criteri di svolgimento delle attività professionali.

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