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Autostrade, dopo lo schiaffo ai Benetton non sarà public company

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“Panta rei”, tutto passa, e dopo un giorno la vicenda Autostrade si trova relegata molto in basso nelle pagine online dei maggiori quotidiani. Forse riemergerà, chissà, ma al momento, a parte qualche voce dissonante (o stridula, dall’opposizione), prevale una calma apparente come quella che segue le grandi battaglie.

È nata una public company, quindi, come afferma un trionfante Governo. Finalmente, grazie all’azione del vendicatore, gli interessi dei cittadini tornano sotto la tutela dello Stato, che dopo una ventina d’anni torna in possesso di un asset strategico e fondamentale per lo sviluppo del Paese, sottratto alle mani, poco capaci e molto golose, del capitale privato.

Una vicenda, quella di Autostrade, davvero complessa, intricata, affascinante sotto certi aspetti. Che lascia materia di riflessione per tanti – storici, scienziati politici – ma anche semplici cittadini interessati a capire senza accontentarsi, appunto, della “calma apparente”.

Di questa complessità, tra i tanti spunti, colpiscono in particolare due elementi.

NON CHIAMATELA “PUBLIC COMPANY”

Il primo attiene proprio al tema della “public company”, che ha, per un giorno, riempito le pagine dei giornali e le bocche degli esponenti della maggioranza. A costo di apparire puntigliosi, però, va chiarito che il termine “public”, tecnicamente, non significa “pubblico” nel senso italico del termine, ovvero di proprietà dello Stato. Nella sua accezione originaria, di matrice anglosassone, “public” sta per “diffuso”; che non è la medesima cosa. Una public company è una società ad azionariato diffuso, in cui non si rilevano azionisti “di riferimento”, per usare un termine desueto. Una public company D.O.C., insomma, è una società quotata in Borsa, ove centinaia di migliaia di azionisti delegano a un management professionale (e, si spera, disinteressato e fedele) il compito dii gestire la società stessa. Obbiettivo del management dovrebbe essere la “creazione di valore”, ovvero l’incremento del valore delle azioni, ma anche della loro redditività rappresentata dai dividendi, presenti e futuri.

Bene. Quello che il Governo dice, però, non è esattamente così. In primo luogo, nella nuova Autostrade si prevede una quotazione in Borsa, con conseguente polverizzazione della proprietà? No. Ci sarà un azionista di riferimento (Cassa Depositi e Prestiti) con un bel 30% (e “rotti”, come si dice) – naturalmente per mettere al riparo la società da Opa ostili. Poi, un 20-22% diviso tra tre-quattro azionisti graditi a Cdp, e siamo al 52-53% nelle mani di un blocco diciamo omogeneo. Forse qualche altro amico lo si recupera strada facendo. Siamo al 60%. Ai piccoli azionisti, al mercato, resta da dividersi un 40% del capitale – e, ovviamente, da subire le decisioni degli azionisti di riferimento, pubblici e privati. Niente public company, quindi. Ma, come Eni, Enel e altre controllate pubbliche, un nuovo modello fatto di piccoli azionisti, fondi, e proprietà pubblica.

Non è detto che sia un male, per carità. Se i fondi, pur in posizione di minoranza relativa, sono in grado di esercitare un monitoraggio efficace, imponendo la scelta di un management professionale, efficiente, slegato dalle pressioni politiche, questo farà il bene della nuova Autostrade. Resta, però, da vedere come si riusciranno a conciliare le esigenze di ritorno sugli investimenti dei fondi, e quelle di una giusta remunerazione degli azionisti di minoranza, con le necessità di un proprietario che invece dichiara che taglierà i pedaggi. Insomma, o i pedaggi caleranno (e allora subiranno i piccoli azionisti), oppure non caleranno (e allora saranno presi in giro i cittadini) – che, gira e rigira, sono sempre gli stessi soggetti. A meno che…

QUELLA STRANA FRETTA

A meno che non si trovi la quadra. Il secondo punto interessante della vicenda è: perché una storia che dolorosamente si è trascinata per due anni, si è risolta nel giro di qualche giorno?

Innanzitutto, va detta una cosa: per fortuna! In due anni (e due Governi), indipendentemente dal torto o dalla ragione, si è distrutto un ammontare di valore (ma soprattutto un capitale molto più importante, quello reputazionale) senza precedenti. Così non si fa. L’Italia, come noto, non è un gigante del capitalismo globale, e le sue imprese di standing internazionale si contano sulle dita di una mano. Situazioni di questo tipo, dove tutti perdono (la società, i risparmiatori, il Paese), vanno evitate. Si spera, per il futuro.

Detto questo, allora, che è successo? Come sempre, le vie della politica sono tortuose, quasi come le menti dei politici. Ma due cose sembrano abbastanza chiare.

Innanzitutto, le urgenze della politica sono diventate alquanto urgenti. Come noto, chi ha scommesso molto, e da subito, sul messaggio “solo lo Stato può fare il bene dei cittadini – abbasso i pescecani” era oramai tempo onorasse una cambiale politica a suo tempo stipulata (e coerentemente – va detto – tenuta in bella evidenza). Molte le ragioni: perdita di consenso; attacchi esterni; presenza di un socio di governo ingombrante; fronde interne crescenti, e via dicendo.

L’urgenza però non basta a giustificare la fretta. E allora viene in mente una strana coincidenza, che addirittura tira in ballo Covid-19 e stato di emergenza.

In primo luogo, c’è un Governo che, va detto, un pochino forse al decidere senza eccessivo dibattito ci ha preso gusto – niente di male, in Europa c’è chi fa molto peggio.

In secondo luogo, il fatto che, se tutto va bene, soldi, molti soldi potrebbero arrivare dall’Europa. Certo, per nobili scopi, tra cui l’incremento dell’efficienza del sistema sanitario. Ma non è detto che finalmente una società come Autostrade, fortemente colpita dall’emergenza e dal calo del traffico (e dei profitti), non possa, ora che finalmente il padrone è buono, accedere a fondi messi a disposizione (che sia Mes, che sia Recovery Fund) dall’Unione. Il che sarebbe la quadra, visto che i bilanci magari si potranno tenere un po’ in ordine, e nello stesso tempo abbassare i pedaggi a tutto vantaggio dei cittadini (futuri elettori).

Un brutto pensiero? Forse. O forse no.

°°°L’autore è professore ordinario di Storia economica e Direttore del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi

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Categories: Economia e Imprese