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Autonomia differenziata: perché rischia di aumentare le disuguaglianze e sfasciare i conti pubblici. Report Cpi

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Il dibattito sull’autonomia differenziata, sancita dalla legge Calderoli, sta infiammando il panorama politico italiano. L’idea centrale è semplice: permettere alle regioni più ricche di trattenere una maggiore parte delle loro tasse, invece di trasferirle allo Stato. Ma questo cambiamento, apparentemente vantaggioso per le regioni del Nord, nasconde insidie che potrebbero destabilizzare i conti pubblici e colpire duramente il Mezzogiorno, potenzialmente privato di risorse e servizi. L’effetto potrebbe essere un’accentuazione delle disuguaglianze e una minaccia all’equilibrio economico del paese.

Quali sono, dunque, le reali implicazioni economiche e politiche di questa legge? E come potrebbe influenzare i conti pubblici? A queste domande risponde uno studio dell’Osservatorio sui Conti Pubblici (Cpi) dell’Università Cattolica, guidato da Giampaolo Galli.

Cos’è l’autonomia differenziata?

La legge Calderoli si basa su un principio stabilito dall’articolo 119 della Costituzione italiana, che prevede che le regioni possano gestire una parte dei tributi raccolti e partecipare al gettito delle imposte erariali. In pratica, la legge prevede che le regioni con maggiore capacità fiscale possano trattenere una quota più alta delle tasse raccolte nel loro territorio.

Questo principio, sebbene chiaro sulla carta, si scontra con diverse sfide nella pratica. Ogni regione, infatti, deve garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), cioè standard minimi di servizi pubblici. Questo potrebbe limitare la possibilità delle regioni più ricche di accumulare risorse in eccesso. Inoltre, una Commissione paritetica Stato-Regione monitorerà e adeguerà le aliquote di compartecipazione ai tributi per mantenere l’equilibrio tra le esigenze delle diverse aree.

Le sfide dell’applicazione

L’iter legislativo per l’autonomia differenziata è stato caratterizzato da un’intensa discussione politica. Le ragioni del Mezzogiorno e le esigenze di perequazione tra regioni più e meno sviluppate sono state fortemente rappresentate, anche all’interno della maggioranza di governo. Questo ha creato un quadro complesso e articolato, con i detrattori che avvertono dei rischi di disuguaglianza e svantaggi per le regioni meridionali.

Inoltre, ci sono due motivi principali che rendono questa legge problematica. Primo, l’Italia ha un problema di conti pubblici: un sistema centralizzato permette allo Stato di gestire le risorse e garantire una distribuzione equilibrata che rassicura i mercati e il ministro dell’Economia riguardo la tenuta dei conti. Senza una gestione centralizzata, il rischio è di compromettere la stabilità economica. Secondo, il Pil del Mezzogiorno è solo il 22% del totale nazionale. Se le regioni del Nord riducessero i trasferimenti al Sud, il Mezzogiorno potrebbe trovarsi in gravi difficoltà economiche.

Autonomia differenziata: gli effetti su conti pubblici e Mezzogiorno

Per valutare l’impatto potenziale della legge, la simulazione proposta da Cpi utilizza i dati sui residui fiscali calcolati dalla Banca d’Italia per l’anno 2019. Questi dati offrono uno spaccato delle entrate e delle spese pubbliche per regione e mostrano come il Centro-Nord contribuisca significativamente al bilancio dello Stato, mentre il Mezzogiorno riceve risorse da altre regioni.

Ecco alcune osservazioni chiave:

  1. Secondo i dati della Banca d’Italia relativi al 2019, i residui fiscali – ossia la differenza tra le entrate e le spese pubbliche nelle diverse regioni – mostrano una chiara disparità. Le regioni con residui negativi contribuiscono positivamente al bilancio dello Stato, mentre quelle con residui positivi ne beneficiano. La Lombardia, ad esempio, contribuisce con un avanzo di bilancio di 56,8 miliardi di euro, una cifra che rappresenta quasi il 60% del residuo fiscale positivo del Centro-Nord e il 90% di quello del Mezzogiorno. Questo indica un significativo contributo delle regioni più ricche al bilancio statale.
  2. La Campania ha il residuo fiscale positivo più alto tra le regioni meridionali, con 16 miliardi di euro. Seguono Sicilia e Puglia con residui positivi rispettivamente di 14,2 miliardi e 12,7 miliardi di euro. A livello aggregato, il Centro-Nord contribuisce con quasi 100 miliardi di euro al bilancio pubblico nazionale, mentre il Mezzogiorno riceve circa 64 miliardi di euro in trasferimenti netti. Questo crea un saldo primario nazionale di 31,7 miliardi di euro, equivalente all’1,8% del Pil.
  3. Impatto della trattenuta: se le regioni del Centro-Nord trattenessero il loro intero residuo fiscale, il costo per lo Stato sarebbe di circa 95,9 miliardi di euro, equivalente al 5,3% del Pil nazionale e al 24% del Pil del Mezzogiorno. Questo scenario illustra chiaramente quanto sarebbe difficile per lo Stato gestire una riduzione così ampia dei trasferimenti senza compromettere gravemente le regioni del Sud.
  4. Scenario realistico: in uno scenario più moderato, dove le regioni del Centro-Nord con residui fiscali negativi decidessero di trattenere due punti del proprio Pil regionale, il saldo primario nazionale peggiorerebbe di 1,4 punti percentuali del prodotto interno lordo. Questo peggioramento sarebbe permanente e potrebbe tradursi in una riduzione della spesa per il Sud pari al 6,2% del suo Pil, con effetti potenzialmente disastrosi.

La semplice aritmetica dimostra che qualsiasi tentativo di aumentare le risorse per le regioni del Centro-Nord, penalizzando il Sud, potrebbe avere conseguenze devastanti per l’equilibrio economico e sociale del Paese. La legge Calderoli e l’autonomia differenziata devono affrontare questi problemi con attenzione per evitare di compromettere la stabilità e l’equità del sistema fiscale nazionale.

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