Su un punto sono tutti ‘accordo: “Un contratto così non lo si vedeva dagli anni Sessanta” ripetono in coro i consulenti del mondo a quattro ruote. Già, come capita di rado, stavolta a vincere sono state le tute blu di Detroit, la classe operaia travolta dalla crisi del 2008/09, costretta ad accettare tagli e sacrifici pur di conservare posti di lavoro a rischio, visti i problemi accumulati dall’auto Usa. Storie di ieri, ormai. I tre Big delle quattro ruote, Ford, Gm e Stellantis (che oggi ha presentato i conti), erede i Usa della Chrysler risanata da Sergio Marchionne, sono stati obbligati ad accettare accordi che non solo comportano aumenti salariali nell’ordine del 25 per cento almeno di qui a quattro anni (da 32 a 40 dollari la paga oraria) ma ridisegnano in buona parte la mappa dei del mercato del lavoro, abolendo le figure professionali più deboli, e dell’assistenza sanitaria. Nonché a rimettere, dopo decenni di sconfitte, il sindacato al centro della politica industriale americana.
Il clamoroso successo del sindacato dell’auto
Un successo clamoroso a conferma che, 40 anni dopo l’affermazione dei principi della Reaganomics, l’America sta voltando pagina: dalle lotte per introdurre le Unions in Amazon e Starbucks, dall’affermazione dei camionisti di Ups agli autori ed agli attori i di Hollywood, si sono moltiplicati gli esempi di rivolta del mondo del lavoro. Ma, nonostante questi precedenti, non erano in molti a prevedere che la piattaforma assai aggressiva presentata dall’Uaw, il sindacato dell’auto, potesse piegare i grandi dell’auto Usa. Anzi, erano davvero pochi gli esperti che davano credito a Shawn Fain, 50 anni, elettricista con scarsa esperienza nelle Union, che a marzo aveva prevalso per un pugno di voti (non più di 500 contro Ray Curry, una vita nella segreteria del sindacato. Un outsider senza grande esperienza. Per dirla con Curry, uno che di grandi fabbriche, ne sapeva proprio poco.
Un avversario “leggero”, pensarono in coro i Big dell’auto Usa, per una sfida così impegnativa. Anche perché il sindacato, indebolito dagli scandali degli anni precedenti che hanno portato in galera due dei leader nel 2016/17, sembravano destinato al più ad una lenta ricostruzione interna, frenata per giunta dalle sconfitte subite nel tentativo di introdursi nelle fabbriche Usa di Toyota e Volkswagen.
I giovani leoni che hanno portato il sindacato al successo
Ma, perso per perso, Fain ha giocato la carta della piazza pulita, scaricando tutti i vecchi dirigenti per affidarsi ad un terzetto di giovani leoni in arrivo dall’esterno, senza esperienza di fabbrica: Chris Brooks,uno specialista della comunicazione politica, già al fianco di Alexandria Ocasio-Cortez, la battagliera lead della sinistra radicale; l’avvocato del lavoro Ben Dictor (malmenato dai guardaspalle di Donald Trump durante una protesta alla Trump Tower)e Jonathan Furman, esperto di comunicazione. un ex giornalista già riuscito nell’impresa di far scioperare i colleghi del New York Times. Sono stati loro a convincere Fain ad adottare tattiche e strategie nuove per le lotte sindacali.
In passato, la stagione dei contratti si apriva con una riunione pubblica di sindacati e manager aziendali ai massimi livelli, tra strette di mano e tavole imbandite. Poi iniziava la trattativa con un’azienda pilota cui facevano seguito, una volta raggiunto il primi accordo, i colloqui con le altre due. Stavolta, invece, Fain ha rifiutato la liturgia delle strette di mano, ma è passato subito alla fase degli scioperi. Con una strategia molto sofisticata, coinvolgendo volta a volta le fabbriche ed i depositi più redditizi delle aziende, tra cui le fabbriche di Ram e di Jeep di Stellantis, badando però a ridurre al minimo l’impatto per i dipendenti.
Fondamentale la politica della comunicazione
Ancor più radicale la politica della comunicazione. A Bill Ford, che aveva lanciato un appello alla concordia (“non tratterò mai un mio dipendente come un nemico”) Fain ha opposto lo stipendio di 21 milioni di dollari del ceo Jim Farley. E così via, guadagnando nel corso della vertenza il consenso dell’opinione pubblica. Oltre all’appoggio del presidente Biden che spera così di riconquistare alla causa denocratica l’America operaia.
Di fronte a questo schieramento i 3 Big hanno deciso alla fine di cedere, prima che l’esaurimento delle scorte incidesse sull’offerta di auto. “Del resto – spiega al New York Times dom Narayan, esperto dell’auto di Tbc Capital – le case devono fronteggiare problemi più complessi di quelli presentati dall’Uaw: il mercato stenta ad accogliere i nuovi modelli e l’auto elettrica per ora resta un rebus”. Il sindacato, poi, potrebbe trasformarsi da nemico in alleato se riuscirà a conquistare il consenso delle fabbriche di Tesla, che produce a costi largamente inferiori.
C’è da vedere ora se l’onda lunga dei giovani turchi di Detroit sarà in grado di varcare l’Oceano.