Guai a brindare al grande compromesso che si sta concretizzando in questi giorni. Gli esperti, quelli veri e soprattutto quelli meno imbrigliati nelle lobby e nei giochi politici, già preparano il fuoco di sbarramento. L’idea di accontentare tutti consentendo la produzione la vendita in Europa delle auto teoricamente più pulite tra quelle a metà strada tra l’elettrico e il termico, ovvero le ibride “plug-in” e quelle dotate di un piccolo motore termico per una ricarica “d’emergenza” (range extender), potrebbe rivelarsi un vero pasticcio.
L’idea, nata dai politici e depositata sul tavolo della Commissione Europea, si sta facendo largo. Con tre promesse apparentemente risolutive. La prima, essenziale perché tranquillizza l’industria: l’auto europea potrà sopravvivere e forse prosperare ancora, con una transizione meno faticosa verso l’ibrido plug-in o “range extender” rispetto alla totale rivoluzione verso l’elettrico puro. Si potrà infatti incrementare la produzione di modelli europei che già esistono, evitando la sudditanza alla già straripante produzione di mezzi elettrici cinesi ora fronteggiata dalla sola Tesla del controverso Elon Musk, il regista della nuova congiunzione politico-economica-industriale planetaria.
Seconda promessa, provvidenziale per raccogliere consensi: ai cittadini verrebbe assicurato un passaggio più morbido e meno traumatico verso la completa elettrificazione della mobilità. Ed ecco la terza promessa, cruciale perché deve rendere credibile il presupposto fondamentale: così facendo verrebbero comunque salvaguardati gli obiettivi che la nuova mobilità potrà dare alle politiche verdi.
Funzionerà? I timori sono più che giustificati. Le tre promesse, come largamente intuibile, sono credibili solo se si realizzano pienamente e insieme: si salva l’industria, si tutela il cittadino, si aiuta l’ambiente. Bene, cioè male. Perché proprio la terza promessa, quella cruciale, cioè la tutela ambientale, è quella che rischia di franare fin da oggi.
Il grande inganno dei cicli di omologazione
L’automobile “plug-in” o con il “range extender” inquina di meno rispetto ai motori termici più recenti? Non è detto. E non è vero tutto ciò che ammanta le affermazioni che circolano, evidentemente con un po’ di superficialità, se non di inganno. Il plugin può effettivamente inquinare di meno, avvicinandosi (non molto) ai parametri ambientali del motore elettrico, le cui virtù verdi andrebbero peraltro correlate alla tipologia di generazione dell’elettricità usata per ricaricarle. Ma deve essere gestito con attenzione, dedizione e impegno. Altrimenti rischia di inquinare (e costare, anche in termini di spese di esercizio) di più non solo rispetto alle auto “full hybrid”, quelle che si auto-ricaricano e fanno tutto da sole, ma anche rispetto ad un’auto a benzina e a maggior ragione di un diesel dell’ultima generazione, ora da tutti criminalizzato con ben poche giustificazioni e molte vistose falle nelle nostre politiche per la mobilità e l’ambiente.
Le diagnosi e le accuse dei veri esperti
Sospetti? Crude diagnosi, piuttosto. Come testimoniamo alcuni autorevoli report, curiosamente poco considerati. Ne citiamo due. Quello dei ricercatori tedeschi del Fraunhofer Institute for System and Innovation Research di Karlsruhe e quello, periodicamente aggiornato ma poco pubblicizzato, frutto del monitoraggio avviato fin dal 2021 dalla stessa Commissione europea. Due atti di accusa, peraltro largamente convergenti nei risultati e nei relativi messaggi: le auto ibride plug-in sono ben lontane dal mantenere le loro promesse, nelle loro capacità reali ma, ancor più importante, nei risultati del loro effettivo utilizzo.
Una diagnosi che deriva dalla congiunzione di due fattori. Il primo: anche se utilizzate al massimo delle loro capacità verdi, ricaricando le batterie ogni volta che si può, almeno una volta al giorno garantendo una marcia in elettrico “puro” tra i 50 e 100 km e mantenendo il piede leggero per massimizzare le capacità ibride per il resto della percorrenza, le plug-in consumano ben di più di quanto promettono. Secondo fattore, determinante per il cattivo risultato: le plug-in sono invece utilizzate molto male. I privati che le posseggono materialmente e che pagano integralmente il carburante (benzina e gasolio, o anche l’elettricità per ricaricare) sono piuttosto indisciplinati, ricaricano poco, utilizzano troppo con il motore termico. Ma la vera mannaia sulle speranze verdi viene dagli automobilisti delle flotte aziendali, che in molti casi godono del carburante o dalle ricariche elettriche pagate dall’azienda.
Nel primo caso (proprietari diretti) siamo all’insufficienza, nel secondo (auto aziendali) al disastro. I ricercatori tedeschi, che hanno analizzato i dati prodotti da oltre 9mila auto plug-in nell’intera Europa, lanciano accuse a raffica: anche i modelli plugin omologati secondo il nuovo ciclo Wlpt (che doveva assicurare criteri più rigorosi sui consumi effettivi) variano da tre volte rispetto a quelli omologati fino ad addirittura cinque volte per le auto aziendali. La ragione è presto detta.
Le ragioni dell’imbroglio? Anche nei comportamenti
Gli utilizzatori delle auto aziendali? Spreconi e indisciplinati come non mai, dicono i dati. Non solo i consumi effettivi di un’auto plug-in anche se utilizzata al meglio sono più elevati di quelli propagandati, ma loro riescono perfino ad annullare ogni vantaggio: sono davvero molti coloro che non dovendo pagare il carburante evitano accuratamente la piccola scomodità aggiuntiva della ricarica elettrica, marciando quasi sempre o addirittura sempre con il motore termico.
Un difetto di comportamento che si somma al guaio intrinseco delle plug-in, che come noto a molti ma evidentemente non a tutti, quando marciano con il motore termico consumano di più rispetto a una corrispondente automobile con il solo motore termico, più leggera perché non deve “trasportare” il motore elettrico e la relativa batteria, quindi più efficiente di una plug-in che non sia usata correttamente. Risultato: nel caso delle auto aziendali “il consumo reale di carburante per le ibride plug-in – accusano i ricercatori tedeschi – oscillano tra i 7,6 e 8,4 litri per 100 chilometri” contro consumi “ufficiali” attorno a 1,6 – 1,7 litri, risibili quanto incredibili. Molto peggio di qualunque “full hybrid”, molto peggio di un buon diesel, peggio di molti motori solo a benzina.
Un velo pietoso viene esteso sui pochi modelli di auto dotate di “power extender”, ovvero di un motore termico comunque presente, chiamato a ricaricare in caso di bisogno le batterie di auto molto simili a quelle totalmente elettriche. Una soluzione che sta palesando tutti i suoi controsensi: quasi inutile, dannosa per l’efficienza perché appesantisce un mezzo sostanzialmente elettrico. In tutto ciò ne escono sostanzialmente salve le auto ibride “totali (full hybrid) che come largamente verificato offrono comunque buoni vantaggi con il loro sistema di recupero dell’energia altrimenti sprecata.
La correzione di rotta tra promesse e incertezze
Non molto diversi i dati raccolti dalla Commissione Europea, che promette come minimo di fare rapidamente e ufficialmente “chiarezza”, modificando ancora una volta (“entro il 2025”, si annunciava l’anno scorso) i criteri per i cicli di omologazione di tutte le automobili: elettriche, ibride, ibride plug-in e termiche, finché queste ultime potranno nascere e vivere.
I messaggi che dovremo trarre da tutto ciò sembrerebbero inequivocabili. La deroga al posto 2035 per le ibride plug-in sembra, allo stato attuale, una sonora stupidaggine. A meno di non introdurre un sistema (difficile da immaginare) per obbligare gli utilizzatori a utilizzarle in una maniera realmente “verde”. Più credibile, al limite, concedere una deroga temporanea alle auto “full hybrid”. Magari accelerando al massimo – questa sarebbe davvero la soluzione più razionale e credibile – la creazione di un vero ecosistema per le auto elettriche composto da una solida industria europea del settore, una diffusa ed efficiente rete di ricarica e una normativa che sappia limitare costosi incentivi e creare un sistema di autentiche convenienze.