Il neo presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker ha recentemente presentato il tanto atteso piano di investimenti “da 300 miliardi di euro”. Da una prima lettura – i dettagli dovrebbero arrivare a fine anno – è difficile non rimanerne delusi: i soldi effettivamente messi a diposizioni dall’Europa sono davvero pochi (21 miliardi) e l’effetto leva (di uno a quindici) è tutto da dimostrare. Ciononostante, il piano Junker è stato accolto dalla maggioranza dei leader europei con favore perché considerato il simbolo dell’inizio di una nuova era, quella della crescita, e la fine del lungo periodo dell’austerità.
“Basta con l’austerità imposta dall’Europa” è diventato lo slogan per eccellenza, trasversale ed efficace: non c’è uomo politico europeo che non lo usi – con toni più o meno accesi – per raccogliere consenso. Questo perché la maggior parte dei governi europei, negli anni della crisi, ha dovuto effettuare un aggiustamento fiscale.
Non tutti, però, hanno agito nello stesso modo. E, infatti, oggi, i risultati non sono omogenei. Alcuni paesi crescono, altri meno. Alcuni hanno il debito pubblico che diminuisce, altri invece che aumenta. Vediamo il perché di queste differenze e, soprattutto vediamo se davvero l’austerità è stato (ed è) uno strumento imposto dall’Europa o, piuttosto, il frutto di una scelta dei governi nazionali.
Per meglio capire i motivi sottostanti dinamiche di crescita tanto diverse, i paesi che hanno adottato misure di austerità possono essere suddivisi in due gruppi: quelli che hanno ridotto la spesa e quelli che l’hanno aumentata. Il primo gruppo, composto da Portogallo, Spagna e Irlanda (tralasciamo per semplicità il caso greco), ossia tre stati che hanno ricevuto aiuti dall’Europa, ha aumentato le tasse e ridotto la spesa.
Dall’analisi delle variazioni medie dei rapporti spesa pubblica su Pil e entrate su Pil nel periodo 2010-2013, si evince che in Portogallo la riduzione media della spesa è stata dell’1,1%, in Spagna dello 0,9% e in Irlanda del 14% (30% solo nel 2012). Nei tre paesi (tra l’altro tutti guidati da governi usciti da elezioni anticipate), la contrazione della spesa in termini assoluti è stata superiore a quella del Pil nominale. Dal lato delle entrate, invece, l’incremento medio è stato rispettivamente del 3,7%, dell’1,2% e dell’1,3%.
Dopo quattro anni di crisi, i risultati di tanti sacrifici (i costi sociali dell’austerità sono stati elevati, basti pensare al drammatico numero dei disoccupati) si cominciano a vedere, in alcuni casi in maniera più netta. Nel biennio, 2014-2015, l’economia portoghese è attesa crescere ad un tasso medio dell’1.1%, quella spagnola dell’1,5% e quella irlandese oltre il 4%. Il secondo gruppo è quello composto da Francia e Italia che, nel triennio 2010-2013 ha aumentato sia le entrate sia le spese. In Francia, le entrate rispetto al Pil sono aumentate del 2,2% mentre le spese dello 0,4%; in Italia, le entrate dell’1,5% e le spese dello 0,5%. In entrambi i paesi, le spese in termini assoluti sono cresciute più del prodotto lordo nominale. Quello che ci dicono questi dati è duplice.
In primo luogo, l’austerità dal lato della spesa, in Francia e in Italia, non c‘è stata: le spese sono aumentate sia in rapporto al Pil sia in termini assoluti. In secondo luogo, l’austerità dal lato delle entrate è stata ben maggiore di quella richiesta dall’Europa per mettere i conti su un sentiero sostenibile: la dose aggiuntiva di austerità è servita a finanziare le maggiori spese decise dalla politica nazionale. In sostanza, i governi del secondo gruppo hanno cercato attraverso nuove uscite di mitigare l’effetto dell’incremento della pressione fiscale, in un momento in cui il consolidamento fiscale rischiava di erodere il già scarso consenso elettorale. Queste maggiori spese, tra l’altro, non hanno portato crescita. Il secondo gruppo è, infatti, quello in cui è attesa la performance peggiore: la Francia dovrebbe crescere mediamente dell’0,5%, l’Italia dello 0,1%, a fronte di una media dell’eurozona dell’1%.
In altre parole, i paesi che hanno messo i conti in ordine attraverso un incremento delle tasse accompagnato da una riduzione delle spese, oggi crescono. Chi invece ha incrementato le tasse più del dovuto per finanziare nuove spese, cresce molto meno. In conclusione, se è vero che l’Europa attraverso il suo complicato intreccio di regole fiscali – che tra l’altro sono state sottoscritte da tutti i paesi, inclusi quelli che oggi vorrebbero abolirle – ha chiesto (e continua a chiedere) conti pubblici in ordine, non si può certo negare che una buona parte dell’austerità sia stata imposta dagli stessi stati membri perché destinata a finanziare nuove spese.
Si è trattato di decisioni frutto della debolezza dei governi nazionali, che poi, – per convenienza politica -, sono state presentate come il risultato della “eccessiva forza dell’Europa”. Un caso emblematico è quello del Fiscal Compact. In base a ciò che è stato stabilito in sede europea, gli stati possono scegliere se inserire il pareggio di bilancio in Costituzione (articolo 3 comma 2). Ad oggi, solo 3 su 25 – l’Italia, la Spagna e la Slovenia (la Germania lo aveva fatto già fatto nel 2009) -, hanno deciso di modificare il testo costituzionale. Ma allora, se sono i governi e i parlamenti nazionali ad imporre ai propri cittadini inutili dosi di austerità, come può essere credibile chi sostiene che l’austerità sia solo colpa dell’Europa?