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Austerità, Europa e il convitato di pietra della domanda aggregata: ridurre le imposte si può

FIRSTonline

Al tavolo dell’Eurogruppo siede un convitato di pietra che si chiama “domanda aggregata”, quel che gli imprenditori, con parole più efficaci e dirette, chiamano fatturato, ordini, vendite.

Il governo italiano ha concordato con l’Europa un elenco di riforme strutturali certo auspicabili—a condizione che riescano davvero a far sì che le regole del mercato facilitino, e non ostacolino, le opportunità di lavoro e d’impresa. Ma per tornare a far crescere Pil e occupazione, si affida agli effetti che le riforme avranno sul prodotto potenziale della nostra economia.

Ora, se è vero che il Pil potenziale è importante perché è ciò che un’economia è in grado di produrre col proprio capitale e col proprio lavoro, è altrettanto vero che dalla recessione si esce con un aumento del prodotto effettivo ovvero del Pil che le imprese trovano conveniente produrre. E qui, come gli imprenditori ben sanno, il motore primo è la domanda: se il ristorante è pieno e il personale non basta, il proprietario assume (magari lamentandosi di regole e burocrazia), ma se il ristorante è vuoto anche le migliori riforme restano lettera morta.

È perciò abbastanza sorprendente che il tema degli effetti dell’austerità sulla domanda per consumi e investimenti sia del tutto assente dall’agenda dell’Eurogruppo e compaia solo occasionalmente nel dibattito su come salvare l’euro.

A riportare il tema della domanda interna nel dibattito sulla crescita ci ha pensato il rapporto La lunga crisi: ultima chiamata per l’Europa del Centro Studi Confindustria, che dedica un riquadro alle Politiche espansive per uscire dalla crisi, stesso titolo di una nota separata a firma di Alessandro Fontana, Luca Paolazzi e Lorena Scaperrotta. Gli autori spiegano che le politiche fiscali restrittive comprimono la domanda interna, tanto più se sono attuate simultaneamente da più paesi fra loro integrati. Gli autori evidenziano il fatto che dal 2011 le politiche dell’austerità nell’area dell’euro sono diventate fortemente pro-cicliche, ovvero, accentuano la recessione già in atto.

Si tratta di un importante richiamo alla realtà per la politica economica in atto in Italia e in Europa, che per rilanciare la domanda fa invece assegnamento su due elementi privi di efficacia: i futuri, ipotetici guadagni di produttività per rilanciare le nostre esportazioni in un contesto mondiale in cui la domanda estera langue, e un generico effetto “fiducia” che dovrebbe scaturire dai provvedimenti e dalle dichiarazioni di BCE ed Eurogruppo. Di fatto, tradendo un obiettivo cardine dell’Unione Economica e Monetaria, quello del consolidamento del mercato unico.

In altre parole, è divenuto ormai urgente che l’Europa comprenda in quale guaio si è messa imponendo tagli alla spesa e aumenti della tassazione finalizzati a ridurre il rapporto debito/Pil, e che non solo sono incompatibili con la crescita, ma sono anche destinati a mancare l’obiettivo della riduzione del debito. Eppure, non dovrebbe essere più un mistero: nella crisi globale, i paesi che hanno potuto lasciar correre i disavanzi pubblici con la recessione sono anche quelli che oggi registrano tassi di crescita superiori a quelli dell’Eurozona, dove morde invece il vincolo della moneta comune.

Il motivo è semplice. In un dato sistema economico, per ogni individuo o settore che spende meno del proprio reddito occorre che ce ne sia un altro che spende più del proprio reddito se non si vuole determinare un calo del Pil. A spendere meno del proprio reddito sono, tipicamente, le famiglie, se non altro come conseguenza dei contributi pensionistici che comprimono la domanda interna, e le imprese, soprattutto quando, vedendo l’orizzonte scuro, preferiscono accumulare riserve che investire. Lo strumento che compensa i flussi ‘in uscita’ dal reddito è il disavanzo pubblico, che è contabilmente identico all’avanzo complessivo degli altri settori dell’economia. Comprimerlo quando l’economia è debole vuol dire aggravare la recessione.

D’altra parte, già nel corso di questa crisi, le speranze affidate alle politiche monetarie espansive si sono rivelate effimere, e il motivo è evidente: la politica monetaria modifica i tassi d’interesse, ma non può accrescere i risparmi e gli utili del settore privato. Si tratta di un principio elementare di macroeconomia, troppo a lungo dimenticato, oggi riscoperto alla luce della crisi. E che con qualche approssimazione, si può così riassumere: l’espansione fiscale crea reddito, quella monetaria solo liquidità.

Che fare allora, sotto i vincoli della moneta unica? Sarebbe già molto poter includere la questione della dinamica della domanda aggregata europea tra le emergenze del prossimo Eurogruppo. Riduzioni straordinarie delle imposte, concordate e coordinate in Europa, meglio se mirate ai consumi e ai redditi medio-bassi, rilancerebbero la domanda facendo crescere il reddito imponibile e producendo l’effetto (solo apparentemente contro-intuitivo) di ridurre i rapporti debito/Pil e gli spread. Altre soluzioni sono tecnicamente possibili, a condizione che il convitato di pietra venga riconosciuto al tavolo.

A suonare l’ultimo allarme è l’International Labor Organization che nel rapporto di luglio stima che se l’Europa insisterà ostinatamente nella politica dell’austerità vedremo un’ulteriore distruzione di quattro milioni e mezzo di posti di lavoro nei prossimi quattro anni, con una disoccupazione nella sola Eurozona di 22 milioni di persone. Oggi, la Cina sta evitando l’atterraggio brusco della propria economia con una politica fiscale che stimola la domanda interna. Se la Cina è pronta ad abbandonare il modello della crescita trainata dalle esportazioni e a stimolare la domanda interna, perché l’Europa non potrebbe fare altrettanto? Il declino europeo prossimo venturo non è fatale: se ci sarà, sarà l’esito di un fallimento intellettuale e politico del vecchio continente.

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