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Atlantia, Tim, Mediaset: tante battaglie all’ombra delle reti

Proprio mentre l’occasione storica del Recovery Fund mette a disposizione cifre colossali per recuperare il ritardo nelle infrastrutture, sono ancora aperte tre partite fondamentali. E Bolloré fa goal in zona Cesarini

Atlantia, Tim, Mediaset:  tante battaglie all’ombra delle reti

Se non ora quando? Sembra paradossale, ma l’economia del Bel Paese chiude l’anno orribile della pandemia con una nota di speranza che poggia, tra l’altro, sui 209 miliardi in arrivo con i fondi del Next Generation Fund che vanno ad aggiungersi ad un quadro favorevole sui mercati finanziari (tassi vicini a zero, inflazione per ora lontana) e ad una situazione geopolitica più distesa in cui si profila un trattato a lungo raggio tra l’Unione Europea e la Cina che potrebbe fare molto bene all’export agroalimentare del Bel Paese.

A questi fattori tradizionali si aggiunge l’occasione storica del Recovery Fund di cui si è molto parlato nelle cronache politiche a proposito di cabine di regia, assai meno nel merito. Eppure l’occasione è davvero ghiotta. Grazie ai fondi europei, il 2021 si prefigura come un anno in cui le politiche fiscali saranno le vere protagoniste lasciando le politiche monetarie, sempre fondamentali, in un ruolo più da comprimario. Come non accade da ormai molti (troppi anni) sarà possibile avviare interventi strutturali a lungo termine coinvolgendo fondi pubblici e privati, come promettono di fare i cugini spagnoli.

Il Financial Times ha dedicato un lungo servizio ai progetti che Iberdrola, Telefonica e Seat intendono finanziare con i soldi del Recovery Fund (140 miliardi per Madrid). Da noi il tema, finora occultato dalla polemica politica, è ancor più importante, visti ritardi e polemiche. Specie sul fronte delle autostrade.

ATLANTIA, SPUNTA LA CORDATA ITALIANA.

Il Natale non ha portato la pace sul fronte di Atlantia. Sul fronte delle indagini per il crollo del ponte Morandi dalla perizia della Procura di Genova sono emersi i mancati controlli e gli interventi di manutenzioni non eseguiti correttamente che non hanno permesso di individuare la corrosione dei cavi e così evitare il crollo. Per quanto riguarda la trattativa per la cessione di Autostrade per l’Italia al consorzio capitanato da Cassa Depositi e Prestiti di cui fanno parte Blackstone e l’australiana Macquarie, la novità sta nella presentazione di una lettera di offerta non vincolante per un investimento in Autostrade per l’Italia inviata alla controllata del gruppo Benetton.

In realtà si tratta solo di un aggiornamento dell’offerta già presentata che tiene conto delle “risultanze della due diligence in corso, al relativo impatto sulla valutazione economica e all’identificazione del processo e della tempistica per la presentazione di un’offerta vincolante”.

Dal documento emerge che la posizione delle parti, invece di avvicinarsi, si allontana. La valutazione preliminare del 100% di Aspi in un range di 8,5-9,5 miliardi aveva visto il board della holding respingere al mittente la proposta sottolineando come non fosse adeguata. Ora l’orientamento in Cdp, dopo aver avviato la due diligence sulla complessa infrastruttura e sui conti che non finirà prima della fine di gennaio, è ancor più cauto: la Cassa sarebbe orientata a restare nella parte bassa della forchetta con la richiesta di garanzie più solide rispetto alle precedenti, considerato il fatto che il capex potrebbe essere sensibilmente più alto del previsto, molto dipende dalla valutazione sulla manutenzione effettuata sulla rete negli anni.

La trattativa riguarda l’intera partecipazione di Aspi. A comprare sarebbe il consorzio in cui Cdp Equity conta per il 51%, mentre i due partner internazionale coprono il restante 49% della quota. Ma Cdp è aperta alla creazione di una cordata italiana con soggetti quali fondi di investimento e fondi pensione oltre a Intesa San Paolo. Il titolo scambia a 14,5 euro circa per una valutazione di circa 7,5 miliardi, meno della valutazione degli analisti di Fidentiis. Ma molto dipende dall’incidenza delle spese legali.

RETE UNICA: TIM E CDP PIU’ VICINI AL TRAGUARDO.MA C’E LA UE

Dopo l’avvio della proceduta per la cessione al fondo Macquarie di una quota tra il 40 ed il 50% di Open Fiber, la strada che dovrebbe portare – Bruxelles permettendo – alla rete unica è ancora trafficata. L’operazione Open Fiber, piuttosto articolata, dovrebbe chiudersi entro il giugno del 2021 e prevede per Enel la possibilità di incassare fino a 2,65 miliardi, e la prospettiva di un ulteriore conguaglio in denaro nel caso in cui la società incassi un maxi risarcimento da Telecom Italia, oppure un importante ritorno sull’investimento grazie alla creazione della rete unica (fino a 500 milioni di euro).

A fine agosto il cda di Tim aveva intanto dato il via libera al Memorandum of Understanding con Cdp ed approvato la creazione di FiberCop, la società che cura l’ultimo miglio della rete, in cui Fastweb detiene il 4,5%. Contestualmente il cda della Cassa aveva dato il via libera alla creazione assieme a Tim della società della rete unica nazionale “per accelerare lo sviluppo della rete unica nazionale” (AccessCo).

La situazione sul fronte della rete si è così sbloccata, con il cda di Enel che ha accettato di vendere il suo 50% della società Open Fiber, presumibilmente per il 40% al fondo australiano Macquaire e per il 10% alla Cassa depositi e prestiti. Ma resta un ostacolo: il ruolo di azionista in Tim di Vivendi e la posizione di Bruxelles, visto che per la Commissione una rete verticalmente integrata con il principale operatore di tlc italiano rischia di violare il principio di un’infrastruttura neutrale utilizzabile da tutti gli operatori.

MEDIASET: BOLLORE’ FA GOAL IN ZONA CESARINI

La partita sulla rete unica s’incrocia così con la guerra infinita per il controllo di Mediaset. La vicenda, iniziata nella primavera del 2016 con un accordo perché Vivendi comprasse Mediaset Premium, si era rapidamente trasformata in un scontro di cui vediamo oggi alcune conseguenze. Innanzitutto la Procura di Milano ha appena chiuso le indagini sulle mosse in Borsa di quell’anno accusando Vincent Bolloré e Arnaud de Puyfontaine, rispettivamente primo azionista e presidente di Vivendi, di manipolazione al mercato ed ostacolo all’attività di vigilanza, per aver tentato in modo surrettizio una scalata a Mediaset.

Inoltre, a settembre di quest’anno, Vivendi aveva ottenuto dalla Corte di giustizia europea una pronuncia a lei favorevole che stabiliva in sostanza come la legge Gasparri fosse contraria al diritto europeo e non salvaguardasse il pluralismo dell’informazione. La decisione della Corte apre la strada a un ripristino dei pieni diritti di voto di Vivendi, che nel 2017 si era vista sterilizzare dall’Agcom i due terzi dei suoi diritti di voto in un trust e che da quel momento può esprimersi nelle assemblee Mediaset solo con il 9,9% del capitale.

La rapida risposta italiana al punto segnato dai francesi in Europa è stata un emendamento alla legge di bilancio, presentato dalla maggioranza giallorossa, che stabilisce che in fattispecie come quella dell’ingresso dei francesi in Mediaset, tocchi all’Agcom valutare se acquisizioni in Italia – anche di soggetti comunitari – possano mettere a repentaglio il pluralismo dell’informazione.

Immediata la risposta di Vivendi, che ha allertato subito la Commissione Ue: a Bruxelles la norma italiana non piace perché la vedono come un ostacolo alla libertà di stabilimento delle imprese e l’hanno fatto sapere subito, mentre Roma difende la sua scelta. Al netto di altre cause che si affastellano nei tribunali italiani tra Mediaset e Vivendi la questione è questa e appare appunto arrivata a uno stallo. Da una parte Vivendi, con i disinvolti raid di Bolloré, appare destinata a finire nell’angolo e a dover affrontare anche un giudizio penale; dall’altra l’escamotage giuridico italiano per evitare che i francesi possano mettere le mani su Mediaset non sembra destinato a ottenere grandi consensi in Europa. Ma neanche al Tar del Lazio che il 23 dicembre ha deciso di scongelare l’intera partecipazione di Vivendi nel Biscione. Quindi ora i francesi si potrebbero riappropriare della totalità dei diritti di voto, pari a circa il 30% del capitale Mediaset.

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