Il glottologo Daniele Vitali completa, per iniziativa di goWare, il discorso già avviato la scorsa domenica su FIRSTonline sulla questione del plurale promiscuo nell’ambito di una lingua inclusiva. Di seguito alcune sue riflessioni sul possibile uso dell’asterisco e della schwa in questo ambito.
L’asterisco e la schwa sono stati proposti come modi di rendere il linguaggio meno sessista ma queste proposte, esotiche a livello scritto, creano ancor più problemi a livello orale, configurando una lingua mai sentita prima. Una critica che vale anche per altre soluzioni.
La lingua inventata
In effetti, dire “Carə amicə, vi presento ə nostrə bravissimə artistə: acrobatə, trapezistə, attorə e musicistə che vi riporteranno a quando eravate bambinə, scolarə e studentə” sarebbe parlare una lingua che non esiste.
Questo genere di creazioni è certo molto utile per scopi artistici (si pensi all’elfico di Tolkien) e spettacolari (le lingue usate dai vari mostri di Guerre Stellari), ma non sembra si possa dire altrettanto quando si tratta di comunicare messaggi che qualcuno possa prendere passabilmente sul serio.
In effetti, un modo così poco comunicativo di esprimersi rischia anzitutto di sortire l’effetto di esser presi in giro, anche quando si ha da dire qualcosa di veramente importante e utile… magari proprio per la parità.
Non a caso, le proposte ideologiche di modifica del linguaggio si susseguono a ritmo vertiginoso e durano pochino.
Inclusione ed esclusione
Dieci anni fa andai a una conferenza in inglese: l’oratore statunitense era continuamente interrotto perché ogni frase veniva tradotta in italiano; c’era cioè l’interpretazione consecutiva.
L’interprete era un uomo che concordava al femminile tutti gli aggettivi, anche se si rivolgeva a un pubblico composto da uomini e donne per circa la metà: “Forse ti sarai meravigliata per questa mia affermazione così perentoria, ma quando avrò spiegato cosa intendo spero di averti informata e convinta”.
Alla fine della conferenza chiesi all’interprete perché concordasse tutto al singolare femminile quando you in quel contesto significava evidentemente “voi”.
Lui mi rispose che il “tu” era per arrivare più direttamente alle persone, e il femminile per combattere il sessismo che il patriarcato ha imposto alla lingua: “È importante che il mio lavoro sia inclusivo verso tutte”.
Ora, “inclusivo verso tutte” significa in italiano “verso tutte le donne”, quindi ad esclusione degli uomini, e non si vede come possa essere inclusivo un linguaggio escludente.
Certo, io ho capito cosa intendesse il mio interlocutore, ma la regola grammaticale prevede che la compresenza dei sessi si indichi col maschile, non col femminile, e la deviazione da questa norma mi aveva impedito di concentrarmi sulla conferenza: se non avessi ascoltato anche l’originale inglese, non avrei capito granché di quel che diceva l’incolpevole oratore oltreoceanico ignaro delle nostre beghe.
Non mi pare un gran risultato per un professionista della comunicazione come dovrebbe essere un interprete.
L’intrepida Vladislava
Qualche anno dopo ho conosciuto una certa Vladislava, ragazza slovacca che lavorava in un ufficio per la parità.
Mi parlava in inglese, ma è venuto fuori che conosceva lo spagnolo ed era orripilata da quanto poco politicamente corretta fosse quella bieca lingua sessista: “Quando uno spagnolo si rivolge a un gruppo che comprende sia donne che uomini”, sentenziò, “dovrebbe usare il maschile solo se gli uomini prevalgono. Altrimenti, se prevalgono le donne, dovrebbe usare il femminile”.
Obiettai che non si potevano violare le norme grammaticali delle lingue neolatine, perché parlare infrangendo le regole basilari significa esprimersi più scorrettamente, non più correttamente.
Aggiunsi che vedevo modi più efficaci di contrastare il sessismo, ad esempio combattere la disparità retributiva, il femminicidio, la violenza sessuale.
Lei ribatté che il suo ufficio si occupava della parità di genere ed era dunque suo preciso dovere aprire la strada a un grande cambiamento della società che coinvolgesse anche il linguaggio.
Io pensai che la giovane slovacca nella sua carriera di militante avrebbe subito parecchie delusioni: mi sembrava infatti improbabile che, con la sola forza della sua volontà, potesse cambiare le abitudini orali di 475 milioni di ispanofoni.
A pensarci bene, sono proprio delusione e frustrazione che portano a questi atteggiamenti: poiché i progressi della parità uomo-donna, pur innegabili, sono assai lenti, ecco che le cyberattiviste passano la giornata al computer dicendo agli altri che se non si asteriscano e schwaizzano il linguaggio allora sono complici del patriarcato.
Ma così i progressi resteranno lenti: presa com’era dalla sua furia glottoclasta, l’intrepida Vladislava non aveva mai il tempo di affrontare i problemi che le avevo timidamente segnalato io.
Che fare?
Premesso tutto questo, voglio sottolineare che parlare degli altri in modo rispettoso mi sembra assolutamente fondamentale in una società dove ci sia spazio per tutti: una società inclusiva parla necessariamente un linguaggio inclusivo.
Abbiamo avuto fin troppi politici che paragonavano le oppositrici agli oranghi o si riferivano ai gay in modo irrepetibile. Quello che, però, mi sento di contestare è che si possa cambiare la società cambiando il linguaggio a tavolino, incidendo nella sua carne viva rappresentata dalla fonologia e dalla morfosintassi.
Semmai, quando a furia di battaglie per la parità vera si sarà resa più giusta la società, allora anche il linguaggio si farà meno violento e sessista.
E questo richiede proprio che si fermino i femminicidi, si combattano le molestie, si organizzi il lavoro in modo da non penalizzare le donne.
È già stato proposto di estendere il congedo di paternità in modo che abbia la stessa durata di quello di maternità, togliendo ai datori di lavoro un motivo per privilegiare gli uomini rispetto alle donne.
Qualcosa si può fare subito
E poi, qualcosa a livello di linguaggio si può fare già adesso, ossia si può intervenire sul lessico. Non su quello degli altri, però: sul proprio, dando così il buon esempio (fermo restando che la legge punisce, giustamente, l’ingiuria, le minacce, il linguaggio d’odio ecc.).
Facciamo un esempio pratico. Cosa dice l’italiano medio quando abbassa il finestrino della propria auto per esprimere riprovazione verso gli altri automobilisti?
In genere si tratta di insulti sessisti.. Chi si limita a gridare “cretino!” o “cretina!” viene considerato un mirabile esempio d’inaudita temperanza.
Ecco, io penso che, se estendessimo la temperanza fino a dire semplicemente “ma insomma! chi ti ha dato la patente?”, avremmo dato un notevole contributo a diminuire violenza e sessismo del linguaggio.
Senza bisogno di emettere suoni indistinti.
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Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).