Il recente aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie in sé non è né giusto né sbagliato. Quello che però preoccupa è il metodo adottato. Ancora una volta infatti si è scelto di colpire gli investitori con l’obiettivo di fare cassa invece di sforzarsi di inserire l’aumento dell’aliquota nel contesto di una più generale revisione e semplificazione di oneri e balzelli che gravano sui risparmiatori e sugli intermediari.
L’aumento delle aliquote è stato deciso sulla base di presupposti apparentemente condivisibili ma, in realtà, almeno in parte sbagliati. In primo luogo, è stata fatta una scelta esplicita di trasferire risorse dai risparmiatori e dalla finanza (i cattivi) verso le imprese e l’economia reale (i buoni). In realtà bisogna stare attenti a fare queste semplificazioni. I mercati finanziari svolgono un ruolo essenziale per il finanziamento delle imprese e, nel nostro paese, c’è stata semmai troppo poca, non certo troppa finanza. Se le imprese, anche quelle minori, fossero state storicamente incentivate a fare ricorso al mercato dei capitali invece di puntare solo sul credito bancario forse oggi il problema del “credit crunch” sarebbe stato meno grave.
In secondo luogo, si è detto, le nostre aliquote sarebbero state finora troppo basse rispetto a quelle prevalenti negli altri paesi europei. In effetti il prelievo in Germania, Francia e Spagna sembrava essere superiore, per la verità non tanto sugli interessi quanto sui “capital gains”. Tuttavia il risultato del confronto si inverte ove si tenga conto delle altre imposte che gravano a vario titolo sul risparmio nel nostro paese. Si pensi ad esempio al bollo sul deposito titoli o alla tassa sulle transazioni finanziarie – la cosiddetta Tobin Tax – la quale, essendo stata introdotta solo in Francia e in Italia, sta avendo anche importanti effetti distorsivi. Infatti, a fronte di un gettito complessivo assai modesto, a causa dello spostamento di attività su altre piazze finanziarie, si è avuta una diminuzione degli scambi sui nostri mercati pari a circa un mese di lavoro in borsa! Ecco perché la revisione delle aliquote avrebbe dovuto essere accompagnata da una valutazione complessiva delle varie imposte e magari dall’eliminazione di quei balzelli, come la Tobin Tax, inutili dal punto di vista del gettito e dannosi per la nostra piazza finanziaria.
Infine, un altro aspetto del decreto che suscita perplessità è la decisione di escluderne i titoli di stato. La motivazione addotta è che essi sono detenuti prevalentemente da persone giuridiche per le quali la variazione di aliquota non avrebbe avuto effetto essendo i redditi da interesse inseriti nel reddito complessivo dell’impresa. Anche qui però, al di degli effetti sul gettito, non si è tenuto conto delle potenziali distorsioni provocate da tale decisione. Non si capisce, ad esempio, per quale motivo dovrebbe essere incentivato chi finanzia gli altri paesi acquistando Bund o OAT e penalizzato invece chi finanzia le nostre imprese o le nostre banche acquistando obbligazioni o depositi… Fra l’altro, il governo e l’industria finanziaria stanno cercando di fare faticosamente partire il mercato dei cosiddetti mini-bonds proprio per contribuire ad alleggerire il problema del credito per le piccole imprese. Ebbene, da quando se ne parla l’imposta su questi strumenti è passata dal 12,5% al 20% e ora salirà al 26% mentre quella sui titoli di stato è rimasta ferma al 12,5%. Certo non un gran viatico per il nuovo progetto!
In conclusione la sensazione è che, a causa della fretta, si sia persa l’occasione di dare un vero segnale di discontinuità rispetto alle scelte del passato, estemporanee e volte solo a fare cassa. Come diceva Einaudi, “Le imposte devono essere poche, semplici, senza addizionali e senza imbrogli“: l’auspicio è che nei prossimi mesi le recenti decisioni vengano inserite in un più ampio processo di revisione e di semplificazione delle tasse sul risparmio e sui mercati dei capitali che miri anche a rendere la fiscalità meno penalizzante per la nostra industria finanziaria rispetto ai concorrenti europei.