Il riordino della tassazione sui redditi delle attività finanziarie sembra essere uno dei punti centrali della riforma fiscale a cui sta lavorando il Ministro Tremonti.
La necessità di riequilibrare il prelievo sulle rendite finanziarie con quello che grava sugli altri redditi, in particolare quelli da impresa e da lavoro dipendente, è un principio ampiamente condiviso e difficilmente contestabile. In effetti, in Italia, il carico fiscale sulle rendite finanziarie è inferiore a quello negli altri principali paesi in cui il prelievo sugli interessi o avviene nell’ambito dell’imposizione ordinaria oppure, se si tratta di imposta sostitutiva, prevede aliquote non inferiori al 20%.
L’idea di allineare le due aliquote oggi presenti sui diversi strumenti finanziari in un’unica aliquota, fissandola, presumibilmente, al 20%, sembra essere quindi una soluzione ragionevole e facile da realizzare. In pratica, tuttavia, tale ipotesi implica diverse criticità che suggeriscono un’attenta riflessione.
Qualora il provvedimento riguardasse anche i titoli di Stato, si tratterebbe di valutare se l’innalzamento dell’aliquota dal 12,5% al 20% riguarderebbe tutti i titoli in circolazione o soltanto quelli di nuova emissione. Nel primo caso verrebbe massimizzato il gettito derivante dal riordino, ma verrebbero altresì modificate le condizioni “contrattuali” stabilite al momento dell’emissione. Per altro verso la seconda ipotesi provocherebbe una segmentazione del mercato fra i diversi strumenti con possibili arbitraggi fiscali e indesiderate distorsioni sui prezzi. In pratica le famiglie si butterebbero sui vecchi titoli lasciando ai cosiddetti “lordisti” le nuove emissioni. A questo proposito occorre inoltre segnalare che, per quanto riguarda i titoli di Stato, la quota detenuta dai risparmiatori interessati al provvedimento non supera il 25% del totale. La parte rimanente è in mano a società e imprese (25%) per le quali il reddito derivante dagli interessi rientra nel reddito ordinario e, soprattutto, ad investitori esteri (50%) per i quali tale reddito è sostanzialmente esente e per i quali il presumibile (parziale) incremento del rendimento lordo costituirebbe un inatteso regalo a scapito dei risparmiatori italiani.
Da segnalare poi come l’aumento dell’aliquota disincentiverebbe inevitabilmente l’acquisto di obbligazioni corporate e, soprattutto, di quelle bancarie – queste sì detenute prevalentemente dalle famiglie – proprio nel momento in cui la necessità di finanziamento degli istituti di credito, già fortemente colpiti da Basilea III, sono maggiori. Ciò contrasterebbe chiaramente con l’obiettivo di aumentare il credito bancario alle imprese, specialmente a quelle di piccole e medie dimensioni. Tale disincentivo sarebbe ovviamente ben maggiore nella malaugurata ipotesi in cui la modifica dell’aliquota non dovesse riguardare i titoli di stato, come ipotizzato da alcune fonti giornalistiche.
Ci sono altri due punti di attenzione, finora meno sottolineati ma ugualmente importanti. Il primo riguarda la necessità di adeguare le aliquote che gravano sulle cosiddette partecipazioni qualificate. Oggi infatti la tassazione su tali partecipazioni è fissata in modo tale da tenere conto delle imposte già pagate dalla società, così da determinare una tassazione media complessiva degli utili societari non superiore a quella corrispondente al più alto scaglione di reddito e, allo stesso tempo, di garantire una condizione più favorevole alle partecipazioni non qualificate. Ove fosse definitivamente approvata la proposta di revisione delle aliquote, invece, potremmo trovarci ad avere il caso in cui il piccolo risparmiatore venga a pagare più tasse sull’investimento in azioni rispetto al grande azionista.
In secondo luogo, occorrerà accettare almeno l’idea che si ampli il differenziale di aliquota rispetto ai fondi pensione per i quali è oggi prevista, nella fase di accumulazione, un’aliquota agevolata all’11%. L’aumento di quest’ultima infatti vanificherebbe l’obiettivo di favorire lo sviluppo del risparmio previdenziale nel nostro paese.
Da ultimo va tenuto conto degli oneri di tipo economico ed organizzativo che inevitabilmente graveranno sugli intermediari, cui spetta il ruolo di sostituto di imposta e che saranno richiamati a rivedere le proprie procedure. A questo proposito sarà necessario prevedere un adeguato periodo di adattamento alle nuove misure.
In conclusione, l’impatto delle misure allo studio sui mercati finanziari italiani e sull’attività di banche e degli altri intermediari finanziari non sarà trascurabile. L’esperienza dimostra che i mercati si adattano abbastanza rapidamente alle nuove condizioni. Rispetto al passato, però, bisogna tenere conto della accresciuta integrazione e concorrenza fra mercati, intermediari e, soprattutto, strumenti finanziari emessi e scambiati in Europa. L’auspicio è che le nuove disposizioni tengano ben presente la necessità di non svantaggiare i risparmiatori e gli operatori italiani rispetto ai concorrenti degli altri paesi per non penalizzare ulteriormente la nostra Piazza Finanziaria in aperto contrasto con quanto auspicato dagli stessi vertici delle Autorità di Vigilanza.