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Asean: crescita (+4.9%) ok, ma senza riforme si resta vulnerabili a Cina e Fed

Secondo un recente report di Atradius, l’economia dell’area ASEAN è cresciuta del 4,9% nel 2016, lievemente al di sopra del 4,8% del 2015, grazie al recupero della crescita in Thailandia, alla marginale accelerazione in Indonesia e al rimbalzo nelle Filippine. La crescita è invece rallentata in Vietnam, dove è rimasta comunque elevata e sopra al 6%, e per il secondo anno consecutivo in Malesia dove, al 4,2%, è stata la più bassa dal 2010. Tuttavia, a causa della forte siccità legata al fenomeno de El Niño, e in alcuni casi anche da forti alluvioni, in tutti i Paesi la performance del settore agricolo è stata debole o in rallentamento fino a registrare un netto calo in Malesia (-5,1%) e nelle Filippine (-1,3%). Il comparto servizi, invece, ha tenuto bene ed è accelerato in quasi tutti i mercati, la produzione industriale ha rallentato in Vietnam, Tailandia e Malesia, mentre il manifatturiero, stabile in Indonesia e in rallentamento in Malesia e in Thailandia, ha registrato un’accelerazione in Vietnam (+11,9%) e nelle Filippine (+7%). Dal lato della domanda la crescita è stata fortemente sostenuta dai consumi privati e dagli investimenti, in particolare pubblici, e il contributo del canale estero è stato positivo ad eccezione della Malesia e delle Filippine.
L’aumento dei prezzi delle materie prime e, in parte, una moderata risalita degli ordini esteri hanno favorito un miglioramento delle esportazioni nell’ultimo trimestre dell’anno scorso. La ripresa appare però ancora fragile, visto il rallentamento degli ordini a cavallo d’anno in Vietnam e nelle Filippine, i due mercati dove la dinamica dell’export era stata più solida. In questo contesto il Vietnam è ancora fortemente dipendente dalle esportazioni verso il resto del continente asiatico (50% delle consegne) e rimane pertanto suscettibile a eventuali crisi economiche nella regione. Malgrado il Paese fosse uno dei principali destinatari della Trans-Pacific Partnership, un accordo che avrebbe comportato un significativo aumento delle prospettive di crescita a medio termine, ora tutto sembra indicare che la nuova amministrazione statunitense potrebbe recedere dall‘accordo lasciando il futuro del Paese in un limbo. Le imprese di proprietà estera costituiscono circa il 70% delle esportazioni vietnamite: un dato, questo, che rende l‘economia vulnerabile a eventuali rallentamenti nel caso di un possibile trasferimento delle operazioni da parte delle società straniere. Secondo la Banca Asiatica di Sviluppo (ADB), solo il 35% delle imprese sono integrate tra le industrie di esportazione come fornitori nazionali per imprese di esportazione di proprietà estera in Vietnam (rispetto a quasi il 60% in Malesia e Thailandia). Nonostante lenti ma progressivi cambiamenti, il contesto imprenditoriale continua a essere ostacolato da istituzioni deboli, problemi di infrastrutture e corruzione endemica. Il livello di intervento statale resta elevato e molte imprese pubbliche sono inefficienti e ostacolano l’incremento della produttività. Le imprese vietnamite risentono inoltre di un accesso limitato al capitale, riscontrando pertanto maggiori difficoltà in termini di concorrenza a livello internazionale. E le carenze del settore bancario e i limiti imposti alla proprietà straniera ostacolano gli sforzi volti ad attrarre maggiore capitale estero.
Nella regione la spesa pubblica resta focalizzata negli investimenti in infrastrutture, sanità e istruzione, e continuerà ad esserlo anche nei prossimi anni in linea con i piani di sviluppo al 2020 dei vari Paesi data la forte pressione proveniente da rapida urbanizzazione, scarsità di forza lavoro specializzata e invecchiamento della popolazione. Molti progetti riguardano la rete di trasporti e sono supportati, seppur non senza controversie, anche dall’iniziativa cinese One Belt One Road (OBOR). La domanda interna è attesa essere supportata da consumi privati e investimenti, in particolare pubblici, con il sostegno di una politica fiscale ancora espansiva per tutto il 2017.
Nel 2016 l’inflazione è scesa in media da 3,5% a 2,7% ma è risalita in quasi tutti i Paesi nell’ultima parte dell’anno a causa dell’aumento dei prezzi di alimentari e carburanti. Il primo fattore è temporaneo, legato a fattori climatici, e dovrebbe rientrare nei prossimi mesi, mentre il secondo continuerà ad esercitare una contenuta pressione verso l’alto per l’atteso aumento del prezzo del petrolio, in parte mitigata da un effetto base favorevole. In questo scenario, l’aumento dell’inflazione, atteso intorno al 3,4% nel 2017, potrebbe far avviare una moderata restrizione monetaria a fine anno in Vietnam e nelle Filippine, mentre i tassi sono attesi ancora fermi in Malesia, Indonesia e Thailandia, a sostegno della crescita e a supporto del cambio. Ecco allora che i rischi sullo scenario di crescita sono al ribasso e nella maggior parte dei casi di marcatura internazionale, anche se in alcuni Paesi non mancano rischi interni.
Sul fronte finanziario i rischi provengono da un rallentamento più forte delle attese in Cina e da un sentiero di rialzi della Fed più aggressivo e veloce di quanto scontano ora i mercati. La Banca Mondiale stima che un calo della crescita cinese dell’1% ridurrebbe il pil dello 0,4% nel’arco di due anni in Indonesia, Malesia e Thailandia, mercati maggiormente colpiti nell’area, anche per la loro dipendenza dalle esportazioni di materie prime. Similmente, l’ADB stima che un calo della crescita cinese della stessa entità ridurrebbe la performance nella regione di circa lo 0,3% annuo. Se il rallentamento fosse più brusco, come lo sarebbe se fosse innescato dallo scoppio di una crisi finanziaria, la crescita dell’Asia emergente sarebbe ridotta in media dell’1,8%. Inoltre, un sentiero dei rialzi della Fed più aggressivo delle attese potrebbe innescare nuovi aumenti della volatilità nei mercati, incentivando la fuoriuscita di capitali dai Paesi emergenti con conseguenti pressioni al ribasso sul cambio e un aumento degli oneri sul debito. Sotto pressione resteranno quei mercati dove gli indicatori di vulnerabilità esterna sono più deboli.
Malgrado tassi medi di crescita annua del PIL stabili attorno al 5,5% dal 2000 e alcune riforme in corso di attuazione, l’Indonesia è ancora alle prese con profondi problemi strutturali. La burocrazia, il dilagare della corruzione, un sistema giuridico lacunoso, un mercato del lavoro poco flessibile e scarse infrastrutture mantengono il tasso di crescita al di sotto del potenziale. Ancora molte industrie restano escluse dagli investimenti esteri, mentre la decentralizzazione continua a impedire il coordinamento delle politiche per lo sviluppo delle infrastrutture con conseguenti inefficienze in termini di spesa. E, nonostante fondamentali economici generalmente solidi, allo stato attuale la posizione dell’Indonesia nei confronti dell’estero è più vulnerabile rispetto al passato. L’Indonesia è fortemente dipendente dagli investimenti di portafoglio per il finanziamento dei suoi persistenti disavanzi di parte corrente e dell’accresciuto debito estero del settore privato: un fattore, questo, che rende l’economia vulnerabile a un ulteriore irrigidimento monetario statunitense e al conseguente impatto sui flussi di capitale in entrata e in uscita. Nel biennio 2013/2014, l’Indonesia aveva già assistito a un massiccio deflusso di capitale internazionale dopo i contraccolpi subiti dalla sua valuta locale a seguito del ridimensionamento del programma di acquisto obbligazionario della Fed e della cessione di attività e azioni finanziarie da parte di investitori stranieri. Ciononostante, la vulnerabilità del Paese ai cambiamenti di fiducia degli investitori è in qualche modo mitigata da solide politiche monetarie e dal fatto che buona parte del debito estero pubblico sia a lungo termine. Tuttavia, le imprese indonesiane sono sempre più vulnerabili alla volatilità valutaria a causa dell’ampia quota di debito estero che rappresentano: attualmente costituisce più del 70% delle esportazioni totali.
Allo stesso tempo, anche la Malesia è stata costretta a introdurre delle misure a sostegno della valuta dal momento che gli indicatori di vulnerabilità esterna, pur stabili negli ultimi due anni, hanno registrato un peggioramento rispetto agli anni precedenti: il ringgit ha infatti subito il più forte deprezzamento contro dollaro (-7%) tra le valute asiatiche dopo i risultati delle elezioni americane. Nonostante l’elevata crescita economica, gli stessi indicatori, seppur in miglioramento, restano ancora fragili anche in Vietnam, dove pesa anche il peggioramento dei conti pubblici. Nelle Filippine, infine, malgrado una solida domanda interna, l’espansione dell’economia continua a risentire di un difficile contesto imprenditoriale caratterizzato da corruzione e scarse infrastrutture. Allo stesso tempo, la violenta campagna del presidente Duterte contro il traffico di stupefacenti ha sollevato dubbi tra gli investitori internazionali riguardo all’impegno del governo nei confronti dello stato di diritto. Un ulteriore fattore di incertezza è arrivato dalle dichiarazioni pubbliche di stampo antiamericano di Duterte e dagli apparenti tentativi da parte delle Filippine di rinsaldare i legami con la Cina a scapito della stretta cooperazione politica ed economica con gli USA. Queste mosse potrebbero rappresentare un rischio per le previsioni economiche altrimenti positive del Paese incidendo negativamente su fiducia delle imprese, commercio e investimenti esteri.
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